giovedì,Marzo 28 2024

Cassano, la massoneria fa paura anche al “diavolo” della ‘ndrangheta

L'interrogatorio segreto dell'ex boss Forastefano e le rivelazioni sulle logge deviate: «Non arrivano col fucile come noi, loro ti ammazzano lentamente».

Cassano, la massoneria fa paura anche al “diavolo” della ‘ndrangheta

Lo chiamano Il diavolo, ma quando sente pronunciare quella parola, Antonio Forastefano scuote ripetutamente la testa. «Dottore, a me il reggino non fa paura, ma la massoneria sì». Risponde così il potente boss della Sibaritide al pubblico ministero che gli chiede conto di quel suo tic nervoso. Eppure proprio lui, da criminale giovane e rampante è stato a un passo dall’entrare in una Loggia, sfiorando addirittura un invito a cena con il venerabile Licio Gelli.

Accade nel 2006, poco prima dell’operazione Omnia che mette al tappeto il suo clan, a quel tempo impegnato a espandere la propria influenza criminale fino in Piemonte. Queste e altre rivelazioni vengono fuori da un interrogatorio “segreto” che l’ex collaboratore di giustizia ha sostenuto alcuni anni fa davanti ai magistrati della Dda di Torino. All’ombra della Mole, più precisamente ad Ivrea, infatti, si era consumato l’abbraccio fatale fra lui e alcuni imprenditori del luogo, tutti di origine meridionale.

È uno di questi – racconta – a invitarlo alla cena con Gelli, saltata solo a causa di un impegno dell’ultima ora che riporta l’invitato in Calabria. Ed è sempre lo stesso uomo a proporgli di entrare nei liberi muratori, prima che intervengano le manette a stroncare qualsiasi suggestione esoterica. Ciò nonostante, all’epoca l’asse Sibari-Torino risulta proficua per i partecipanti, con scambi di favori reciproci che hanno l’effetto di sprovincializzare la cosca di Cassano allo Ionio.

«Del resto, io ero quello che avevo sterminato gli zingari». Così, in bilico sul filo del revisionismo, Tonino il diavolo spiega ai magistrati torinesi le ragioni del credito di cui godeva oltre i confini calabresi, rievocando i tempi in cui lui e i suoi uomini, all’ombra degli aranceti di Sibari, erano impegnati nella sanguinosa guerra contro l’arcinemico nomade. Ben altra cosa rispetto al business piemontese, quello che in pochissimo tempo gli avrebbe consentito di entrare in un giro di estorsioni, di forniture di automezzi ai cantieri e di partecipazioni a società, tra cui un centro benessere.

«Mi portarono anche in Svizzera, nello studio di un notaio di Lugano, che alle pareti aveva appese tante foto di gente famosa. Mi disse che la prostituzione era un buon affare, ma poi non se ne fece nulla». Grave errore quello del notaio: il boss, infatti, odiava le lucciole. Lo infastidivano al punto tale che quelle che bazzicavano dalle sue parti, sulla Statale 106, le faceva malmenare dai suoi sgherri. La massoneria, invece, quella lo atterriva di brutto. Anche se, a quei tempi lì, era ormai prossimo a darle del tu. «Non si scherza, dottore. Ma perché arrivano, possono arrivare… non arrivano col fucile come facciamo noi, eh! Loro usano altri metodi e… ti ammazzano lentamente».

Eppure lo chiamavano Il diavolo, uno che non si spaventava di niente e di nessuno: anzi, che era in grado di incutere terrore con la sola imposizione della voce. Ne sa qualcosa, il cireneo Domenico Falbo in fuga con la cassa del clan, immortalato in un’intercettazione de paura, quando riceve la telefonata del boss che gli intima di riportargli il maltolto. Ma con i massoni, no: con quelli non si scherza.

«Mi ricordo una volta, quando abbiamo rubato una macchina con i cosentini. Rubando la macchina, trovammo la valigetta con dentro un medaglione della… della massoneria. Abbiamo portato la macchina dritta a Cosenza dove l’avevamo presa. Subito! Subito!». Risate sommesse nell’aula in cui si svolge l’interrogatorio, con uno dei magistrati presenti che, lungimirante, intuisce le potenzialità «di un nuovo antifurto».  Anche a prova di diavolo.

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