sabato,Maggio 18 2024

MIGRANTI, PAROLE E FATTI | Il Cidis di Cassano da 15 anni accoglie persone. La responsabile: «Ma le leggi in vigore non ci aiutano»

Debora La Rocca lavora quotidianamente con chi arriva in Italia, spesso con un bagaglio di esperienze ed emozioni pesante da portare, ma anche con sogni e speranze e risorse da offrire. Ci ha raccontato della sua attività: «La nostra non è pietas, abbiamo il dovere di garantire un diritto»

MIGRANTI, PAROLE E FATTI | Il Cidis di Cassano da 15 anni accoglie persone. La responsabile: «Ma le leggi in vigore non ci aiutano»

Il centro polifunzionale Kosmopolis è un ex mattatoio a due passi dal teatro e dal palazzo comunale di Cassano. È stato ristrutturato un po’ di anni fa con finanziamenti del Pon Sicurezza. Oggi è una struttura accogliente, con foto appese alle pareti che raccontano un granello di quel tanto che questo posto racchiude. Il resto ce lo racconta Debora La Rocca, responsabile del Cidis che qui ha una delle sue sedi cittadine. L’altra è in corso Cavour, nel cuore di un centro storico che, come tanti, tutti i nostri centri storici, soffre di spopolamento e abbandono. È qui che, sedute una di fronte all’altra, parliamo.

Cidis è l’acronimo di Centro di informazione, documentazione e iniziativa per lo sviluppo. È una onlus nata a metà degli anni ’80 in Umbria che col tempo ha messo radici in altre tre regioni: Campania, Lazio e, da ultima, Calabria. A Cassano è attiva da 15 anni, con ramificazioni in diversi centri della Piana di Sibari. «Facciamo accoglienza diffusa sul territorio – dice Debora La Rocca – e per questo è per noi fondamentale collaborare con i Comuni e la cittadinanza: il percorso di integrazione deve essere condiviso».

Al Cidis di Cassano, nel 2018, appena maggiorenne, è arrivato Yaya Karambiri, di cui abbiamo già raccontato la storia. Yaya è uno dei tanti passati di qui e uno di quelli che qui sono rimasti. Uno dei tanti che si sono sentiti accolti. Accoglienza è la parola chiave. Gli operatori gestiscono il progetto che rientra nella rete Sai ma anche servizi rivolti alla popolazione migrante.

Partiamo dal posto in cui ci troviamo: il centro storico di Cassano. Ha un ruolo importante in quello che fate ma in realtà l’utilità è reciproca.
«Qui c’è un patrimonio immobiliare enorme, ma spesso si tratta di edifici vuoti. È la piaga dello spopolamento che colpisce tutti i centri storici e che porta con sé anche una carenza di servizi. Noi abbiamo lavorato per creare un’offerta alloggiativa per i migranti che fosse per loro sostenibile economicamente e allo stesso tempo capace di creare guadagno per i proprietari di case ormai disabitate. Ovviamente deve trattarsi di soluzioni dignitose per chi va a viverci. I migranti ci arricchiscono, i nostri paesi che si spopolano trovano motivazioni e risorse per andare avanti. E poi ci portano una cultura diversa grazie alla quale le nostre realtà non sono più chiuse ma si aprono al mondo».

Nell’attività quotidiana quali sono le difficoltà maggiori che incontrate?
«Noi accogliamo persone che si portano dietro un bagaglio di emozioni, spesso negative. Molti hanno affrontato un viaggio dolorosissimo, hanno lasciato i loro affetti. Ma si portano dietro anche tantissime risorse, sogni e speranze. Racchiudere in sei mesi un percorso di accoglienza e integrazione è una sfida importante. Per questo l’accoglienza non può essere improvvisata, deve essere professionale. Noi dobbiamo subito far capire a coloro che arrivano in Italia dove si trovano, aiutarli con la lingua innanzitutto, dirgli cosa il nostro Paese può offrire loro e cosa loro possono dare al nostro Paese».

Assieme alle persone, dicevamo, sbarcano risorse ma anche sogni e speranze. Non deve essere sempre facile gestirli.
«Quello che facciamo capire ai ragazzi è che è importante iniziare un percorso lavorativo, anche se non sarà il lavoro della loro vita. Poi si possono anche coltivare i sogni. Yaya sogna di fare il calciatore e lo sta facendo. È comunque un lavoro ma non gli garantisce uno stipendio tale da coprire tutte le spese. Quindi bisogna in parallelo trovare un’attività che dia sicurezza, che consenta di pagare un affitto, le bollette e magari anche di mandare qualche soldo a casa».

Alcuni, come Yaya, restano ma molti vanno via. Rimanete in contatto?
«Sì ed è una cosa che ci fa piacere e a volte ci sorprende. Noi li accompagniamo per un pezzetto della loro vita breve ma intenso, si crea un legame. Alcuni ci chiamano appena dopo essere andati via per farci sapere che sono arrivati e va tutto bene e poi non li sentiamo più. Molti invece si fanno risentire dopo tanti anni. I social sicuramente ci aiutano a tenere i contatti. A Milano, per esempio, ci sono due nostri ragazzi egiziani che hanno aperto una pizzeria: è il primo posto dove andare se si va lì. Ed è bello ritrovarsi dopo tanto tempo».

Il vostro è un lavoro che inevitabilmente comporta un coinvolgimento emotivo. Ci sono stati momenti particolarmente duri?
«Il lavoro con le donne. Loro sono soggette a una doppia vulnerabilità: quella di essere donne migranti ma anche quella di essere, semplicemente, donne. Ci è capitato di accogliere vittime di tratta, ricordo il caso di una ragazza nigeriana che era stata trasferita da un altro progetto Sai. Con lei abbiamo fatto un lavoro molto difficile. Adesso si è ricongiunta con il figlio che aveva lasciato in Nigeria: lo aveva affidato a una vecchia signora del suo villaggio, poi questa era morta e non ne sapeva più nulla. Siamo riusciti a ritrovarlo, a portarlo qui, aveva 5 anni. Ora vivono a Torino e lei è una bravissima parrucchiera».

Steccato di Cutro. Cosa ha da dire chi si occupa di accoglienza?
«Che come al solito la Comunità europea e lo Stato italiano trattano gli sbarchi come se fossero un’emergenza quando in realtà non lo sono più: da oltre dieci anni assistiamo a tragedie in mare, spesso neanche ne abbiamo notizia. Così come il fenomeno dell’immigrazione in generale anche quello degli sbarchi dovrebbe essere trattato come qualcosa di strutturale: i canali di ingresso sono quelli, se non li cambiamo non si può dire alle persone di non partire, impedire alle navi di soccorrerle così non arriva più nessuno. Le persone partono: le persone sono così disperate da mettersi su una barca, da attraversare territori ostici, da finire preda di trafficanti. Noi dovremmo solo capire come fare arrivare sul nostro territorio chi ha bisogno di aiuto».

Invece anche stavolta è stato detto “non dovevano partire”. Il ministro Piantedosi lo ha dichiarato nell’imminenza della tragedia, mentre ancora si cercava di strappare vite alle onde.
«La politica a volte è distaccata da chi lavora a contatto con queste realtà e conosce il fenomeno. Non si può dire: non dovevi partire. Noi siamo stati i primi a emigrare: per fame, per disperazione, per una vita migliore. Questa gente parte perché rischia la vita. Ricordo che il diritto all’asilo è un diritto costituzionale prima ancora che internazionale, l’articolo 10 ci dice quello che volevano i nostri padri costituenti: che tutti potessero godere delle libertà che noi come italiani abbiamo faticato tanto a ottenere».

Cosa chiedete a politica e istituzioni?
«Innanzitutto di cambiare il testo unico sull’immigrazione che è una legge obsoleta, modificare le norme sui flussi. Chi viene in Italia e trova un lavoro ma non ha la possibilità di mettersi in regola perché è arrivato tramite canali non legali di ingresso non può ottenere un permesso di soggiorno. Eppure c’è un datore di lavoro a cui quel lavoratore serve. Tanti ci chiedono: come faccio ad assumerlo? Non si può perché c’è una legge che non va al passo con quella che è la realtà dell’immigrazione. Bisogna garantire a tutti la possibilità di essere persone, chi è senza permesso scompare dalla società e questo vuol dire anche poca sicurezza, visto che di sicurezza si parla tanto».

Fuori da questa stanza, appesa a una parete, c’è una bandiera. C’è scritto Cidis e sotto una frase: “Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre”. Cosa significa?
«È il nostro motto. Il nostro lavoro parte dai bisogni. Bisogna ricominciare il viaggio dell’accoglienza ogni volta che arriva una nuova persona, perché ogni persona è diversa. Ma anche progettare continuamente nuovi servizi in base ai bisogni che vengono fuori».

Voi accogliete. Gli altri invece, fuori di qui, come accolgono quello che fate?
«A volte dobbiamo rendere conto di ciò che facciamo come se fossimo nemici della società, ed è la cosa che ci fa più male. C’è stata gente che, spinta dagli slogan politici del momento, ci additava per strada. E allora uno si dice: io so di essere nel giusto, di fare qualcosa che serve alla società ma la società non me lo riconosce. La nostra non è pietas: abbiamo un compito istituzionale. Chi arriva qui ha un diritto e noi abbiamo il dovere dell’accoglienza. Ogni tanto ci chiedono: perché fate venire tutte queste persone? Ma non siamo noi che le facciamo venire, è un loro diritto venire. Noi semplicemente esigiamo che questo diritto venga garantito».