sabato,Maggio 18 2024

I verbali «farsa» del boss Nicolino Grande Aracri: la famiglia

Nicolino Grande Aracri non credibile. Ecco uno degli interrogatori con la Dda di Catanzaro, dove sminuisce il ruolo della moglie Giuseppina.

I verbali «farsa» del boss Nicolino Grande Aracri: la famiglia

La mancata collaborazione con la giustizia del boss di Cutro, Nicolino Grande Aracri, lascia tanti interrogativi. Dubbi (legittimi) sul fatto che il capo-società della “Provincia” criminale Cosenza-Crotone-Catanzaro, volesse davvero svelare tanti segreti ai magistrati della Dda di Catanzaro. Parliamo di uno dei capi ‘ndrangheta più autorevoli sia in campo nazionale sia a livello internazionale. Un uomo che, grazie alla sue capacità criminali, ha costruito un impero economico, specie in Emilia Romagna, Veneto e Lombardia, capace di controllare tante attività “pulite” e di soggiogare il potere politico. Insomma, Nicolino Grande Aracri non è un boss qualunque, è il boss per eccellenza. Proprio per questo motivo, il suo “pentimento” suonava strano agli occhi degli addetti ai lavori e i fatti, tuttavia, hanno dimostrato l’inconsistenza della collaborazione, tanto che la Dda di Catanzaro, nella giornata di ieri, ha ufficializzato la rottura con il boss di Cutro. 

Operazione "Kossa", la Dda di Catanzaro chiude le indagini (a due mesi dal blitz)

Difendere i familiari

Secondo i magistrati coordinati dal procuratore capo, Nicola Gratteri, che in diversi colloqui con Nicolino Grande Aracri, si è inalberato per le risposte sgonfie che dava il boss crotonese, l’intento del 60enne di Cutro era quello di “difendere” i familiari dalle accuse mosse dall’autorità giudiziaria in diversi procedimenti, dando una versione “tutta sua” di alcuni eventi che gli investigatori avevano ricostruito attraverso intercettazioni e pedinamenti. Tra le frasi che più hanno colpito in negativo i pm Guarascio, Capomolla e Sirleo, c’è sicuramente quella che fa riferimento alla moglie, Giuseppina Mauro, che secondo il boss «non sa fare una O con un bicchiere».

Il viaggio a Roma per il trasferimento del genero

Tuttavia, le circostanze avvenute negli anni, soprattutto quelle captate dagli specialisti del Ros dei carabinieri, hanno fotografato un’altra situazione familiare. Basti pensare al periodo in cui, Giovanni Abramo – genero di Nicolino Grande Aracri – in attesa di diventare padre, cercava di farsi avvicinare al carcere di Catanzaro o Crotone, attraverso una serie di “mediatori” contattati grazie alle amicizie che vantava la famiglia Grande Aracri. L’episodio in questione riporta alla mente la trasferta romana avvenuta nel periodo estivo del 2012 quando, la moglie del boss andò fino a Roma per consegnare la documentazione alla giornalista Grazia Veloce, condannata in primo grado a un anno e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa.

L’ex cronista parlamentare tentò di far spostare Giovanni Abramo (detenuto all’epoca a a seguito del ripristino della misura cautelare dopo la condanna in secondo grado a 20 di reclusione per l’omicidio di mafia di Antonio Dragone) dal carcere di Sulmona, grazie alle amicizie in Vaticano. Fu un Alto Prelato («la pratica tua me l’ha presa il Monsignore … l’altro Cardinale» disse al telefono la giornalista alla mamma di Isabella Grande Aracri) a scrivere una lettera al Nunzio Apostolico delle carceri per sollecitare il trasferimento dell’uomo verso un carcere calabrese per stare “vicino” alla figlia di Nicolino Grande Aracri. Passaggi, quelli che abbiamo raccontato, contenuti nell’informativa “Kyterion II”, famosa per le intercettazioni nella tavernetta del boss, dove si parlava di politica, massoneria e omicidi. Ad onor di cronaca, Giovanni Abramo non fu trasferito.

Le intercettazioni nella tavernetta: i dialoghi con Giuseppe Ciampà

Proprio i discorsi captati nel centro operativo di Cutro sono stati al centro degli interrogatori condotti dalla Dda di Catanzaro. Verbali in cui si evincerebbe la non credibilità di Nicolino Grande Aracri, abile ad eludere le domande dei magistrati circa la partecipazione della moglie e della figlia alle attività illecite della cosca. Uno dei fatti affrontati dai magistrati è la conversazione con il nipote Giuseppe Ciampà che, sceso dall’Emilia Romagna, avrebbe vissuto un periodo di depressione. Così lo zio, lo avrebbe invitato a prendere dei camion, avviando un’attività di movimento terra i cui guadagni dovevano essere divisi al 50%.

«E praticamente si divideva… si divideva i guadagni che faceva mio nipote con… con… con me diciamo, alla fine mia figlia si prendeva i soldi che dovevano dare a me. Questo era il problema, doveva dare i soldi a me mio nipote. Per questo era coinvolta mia figlia, in questo… in questo… in questo ultimo procedimento. Poi, per quanto riguarda mia moglie, mia moglie – voi come ben sapete – quella tavernetta era diventata una centrale operativa, tutti quanti andavano lì a parlare, nipoti, fratelli, sorelle, tutti andavano a parlare là. Allora lì c’era mia moglie ogni volta, magari rispondeva come un pappagallo. Io non lo so se avete visto a mia moglie…». 

«Mia moglie non sapeva di che cosa si parlava»

«Proc. Agg. dott. CAPOMOLLA – No, no, però, guardi, lei ci racconti il fatto, senza dilungarsi.
GRANDE ARACRI Nicolino – No, no…
Proc. Agg. dott. CAPOMOLLA – No, no, giusto per l’economia anche dell’interrogatorio. Ci atteniamo ai fatti, senza dilungarci in aggettivazioni, qualificazioni, considerazioni…
GRANDE ARACRI Nicolino – No, no, no.
Proc. Agg. dott. CAPOMOLLA – …raccontiamo i fatti così… 
GRANDE ARACRI NicolinoAllora, no perché mia moglie non sa fare na “O” cu nu bicchiere diciamo, capite il problema? Allora, no? …mia moglie ogni volta magari quando mio nipote si sedeva al tavolo, parlavano lì e poi gli faceva: “Marì…”, o, “…signora, voi che dite, è giusto così?” E quella dice: “Sì, è giusto”. Poi magari non sapeva nemmeno di che cosa si parlava». (continua)

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