sabato,Maggio 18 2024

Trent’anni dalla strage di Capaci: il ricordo di Giovanni Falcone e il dovere dell’impegno contro le mafie

I nomi del magistrato, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro sono ormai patrimonio collettivo: la loro storia è anche la nostra. Cosa resta oggi del loro esempio

Trent’anni dalla strage di Capaci: il ricordo di Giovanni Falcone e il dovere dell’impegno contro le mafie

La memoria diventa speranza se l’esempio diventa azione e la legalità, unico antidoto alla mafia e alla corruzione, una pratica quotidiana. Al cospetto del sacrificio del bene supremo della vita, condividere nei comportamenti questo valore è un dovere della coscienza, un’urgenza. Il cammino è ancora lungo ma non deve arrestarsi e giornate come quella odierna sono necessarie per non smettere di camminare e non cedere alla rassegnazione.

Leggi anche ⬇️

Non eroi ma istituzioni migliori

Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, sono nomi ormai patrimonio collettivo la cui storia è la nostra storia. In questo trentennale – 23 maggio 1992/2022 – ricordando la strage di Capaci, si impone la necessità di rinnovare la consapevolezza dell’impegno contro le mafie: fin quando esso resterà di pochi, ci saranno quegli eroi per i quali Bertolt Brecht definiva sventurata una società. Invece quel rigore, quella integrità, quell’etica devono essere la regola e non l’eccezione, affinché, come auspicato dal procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, e dallo scrittore Antonio Nicaso, persone come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non si debbano chiamare eroi. Solo nella normalità della legalità c’è possibilità di futuro.

Fu proprio Giovanni Falcone a dichiarare in un’intervista che: «La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni».

Il maxiprocesso e la reazione violenta di Cosa Nostra

Il 23 maggio 1992, il giorno della deflagrazione sull’A29 che spezzò la vita del giudice Giovanni Falcone e della moglie Francesca e degli agenti della scorta che avevano il dovere di proteggerlo, fu il giorno scelto da Cosa nostra per reagire violentemente alla dura azione di contrasto dello Stato cristallizzata nella sentenza del Maxiprocesso di Palermo, confermata in Cassazione proprio nel gennaio di quell’anno. Gli ergastoli, tra cui quello di Totò Riina, principale responsabile delle stragi del 1992 e di altri omicidi, erano 19, oltre 2600 anni complessivi di reclusione comminati.

Fu il processo penale più imponente di sempre, 460 imputati, istruito da Falcone e Borsellino nella prima metà degli anni Ottanta. Quel giudizio per delitti di mafia era iniziato il 10 febbraio 1986 per terminare cinque mesi prima della strage di Capaci. Ma ad ogni passo compiuto per arrivare a quel processo fu versato del sangue innocente.

Sangue innocente

Mentre i Corleonesi segnavano a Palermo la loro ascesa criminale e continuavano a versare sangue – nel 1979 il giudice Cesare Terranova e il poliziotto Boris Giuliano, nel 1980 il magistrato Gaetano Costa e il presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella (Dc), fratello dell’attuale presidente della Repubblica Sergio, nel 1982 il prefetto di ferro Carlo Alberto dalla Chiesa con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, e il sindacalista e deputato Pio La Torre (Pdci) e l’autista e scorta Rosario Di Salvo – l’avvio del pool svelava equilibri ed intrecci criminali e pertanto chiamava altro sangue: Antonio Montana e Ninni Cassarà, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, uccisi nell’estate del 1985. Antonino Scopelliti, sostituto procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, assassinato il 9 agosto 1991 a Campo Calabro, prima delle arringhe nei giudizi di appello proposti avverso le sentenze di condanna del maxiprocesso, al quale il lavoro del pool aveva condotto.