Il ricordo dell’ex sindaco Eva Catizone: «Volevano farci male, non ci sono riusciti»
L’erede di Mancini era primo cittadino da quattro mesi quando ci fu il blitz contro il Sud Ribelle. «Il corteo fu una grande festa, dai balconi gettavano fiori e le signore dai lati della strada offrivano dolci e bevande. Fu una giornata in cui la città gridò al mondo: “Non siamo come volete dipingerci”»
«Quella mattina di novembre, era molto presto, mi svegliarono gli elicotteri e poi squillò il telefono. Ricordo tutto molto nitidamente, come se fosse accaduto ieri». E invece sono vent’anni, esatti. Eva Catizone era sindaco di Cosenza da poco. Nel giugno del 2002, per le strade del centro, aveva rincorso la vittoria agguantandola. «Quattro mesi dopo la mia elezione scoppiò l’inferno».
Chi la chiamò quel giorno?
«Diciamo solo che mi avvertirono subito di quello che era accaduto all’alba. Ne rimasi scioccata».
Cosa pensò subito?
«A quelle persone portate via nella notte neanche fossero dei boss della malavita. Mi convinsi immediatamente che la faccenda aveva tutta l’aria di una cosa costruita a tavolino per colpire e fare male».
A chi?
«A noi, ai miei assessori, all’amministrazione, alla città».
Che fece?
«Andai subito in Comune, qualcuno mi fece avere il dispositivo. Cominciai a leggere e capii. Tra le righe era chiaro che era tutta una gran montatura. C’era solo una cosa da fare: reagire subito e con fermezza, dare un segnale forte ma sempre con civiltà».
Lei finì in commissione antimafia.
«Ci fu una mia lunga audizione che finì sulla stampa. Mi chiesero se conoscessi persone facenti parte della criminalità organizzata e no global. Assurdo».
Che accadde in seguito?
«Furono giorni convulsi. Ricordo la famosa assemblea al Cinema Italia. I miei alleati cercarono anche di dissuadermi dal prendere posizione».
Avevano paura di finire sepolti dalla slavina con lei.
«Era anche comprensibile, lo dico col senno di poi. Si respirava un’aria pesante all’epoca. Mi suggerirono di tenermi in disparte».
E invece.
«Non ci pensai nemmeno».
Come nacque l’idea del corteo?
«Era una domenica pomeriggio. C’era stata una riunione all’Università con Luca Casarini e avevamo cominciato a parlarne. Ci sentivamo sotto attacco tutti quanti, ma c’era anche un’eccitazione elettrica che ci teneva su. Eravamo lì, in quell’ateneo che era stato definito “un covo di sediziosi” responsabili delle violenze di Genova».
Perché fu puntata Cosenza vent’anni dopo?
«Perché dopo aver fatto a vuoto il giro di mezza Italia qui si trovò una Procura disponibile a procedere. Quello che non riuscirono a prevedere, gli artefici di questo disegno, fu la reazione della città».
Le accuse che pendevano sulle teste degli arrestati erano pesantissime.
«E suonavano come qualcosa di antico. Si parlava di “sovvertimento dell’ordine economico costituito dello Stato”, pensi cosa avevano rispolverato! Durante l’assemblea al cinema Italia si decise di fare la manifestazione. Mi creda, fu un bel rischio».
Cosa temeva accadesse?
«Che qualcuno si infiltrasse di proposito, rovinando tutto e dando la stura per colpirci ancora. Avevo anche paura che, data la situazione bollente, qualcuno potesse effettivamente perdere la testa».
Andò diversamente.
«Fu una giornata straordinaria, e sa perché? Perché Cosenza tirò fuori tutto lo spirito libertario che da sempre la contraddistingue. La città reagì, rifiutando quell’etichetta che cercavano di attaccarle addosso, nell’unico modo in cui poteva farlo: facendo sentire la propria voce, dimostrando cosa significa essere un popolo civile e forte».
Ci fu una regia dietro.
«Certo. Fu un’idea di Piperno cominciare il corteo da Vaglio Lise. Era l’unico ad avere esperienze in quel campo, così mi affidai a lui. Quel lungo tragitto avrebbe stancato i manifestanti abbassando il livello di tensione. Fece una certa impressione partire da un luogo che affacciava proprio sulla caserma dei carabinieri. Il corteo si muoveva pacifico e intanto da quei cancelli uscivano le forze dell’ordine in assetto antisommossa».
La memoria ha restituito immagini iconiche di quel giorno.
«Ricordo i fiori gettati dai balconi di piazza Europa, le signore su via della Repubblica che rifocillavano i manifestanti offrendo dolci e bibite. Era il modo della città di dire: non siamo come volete dipingerci».
E lo disse anche la Chiesa che si schierò dalla parte dei manifestanti.
«Monsignor Agostino era un uomo speciale. Mi chiamò subito e rilasciò dichiarazioni alla stampa di vicinanza al movimento. La sera prima del corteo organizzò una messa e posso dire che contribuì in modo significativo a dare a quella giornata il colore giusto».
Lei ebbe delle ripercussioni, anche al livello personale, per essersi buttata così a capofitto dalla parte del Sud ribelle?
«Qualche mese dopo il corteo sarei dovuta partire per gli Stati Uniti per partecipare al congresso dei democrat. Non mi fu consentito. Seppi in seguito che il mio nome era in una specie di black list».
E guardando più vicino?
«Vuole sapere se i miei alleati avevano storto il naso? Beh, sì. Ma chi è al comando è sempre solo e da solo deve assumere certi rischi, io l’ho fatto e con convinzione».
Un’immagine che porta con sé.
«Io, Nichi Vendola e Ida Dominijanni in testa al corteo».
Facciamo un passo in avanti. Lasciati alle spalle quei giorni, poi qualcosa politicamente si è rotto, anche dentro di lei.
«Le cose cambiano».
Perché si è allontanata da quella parte politica con cui sembrava così affine?
«Non mi sono allontanata da certi ideali, ma da certe persone».
Però è un fatto che ha cominciato collaborazioni con politici che si trovavano dall’altro emisfero rispetto al suo di partenza.
«Io dico: ha senso parlare ancora di differenze ideologiche?»
A guardare verso destra, però, sembra che certi capisaldi siano rimasti, è a sinistra che entra acqua nella stiva.
«Mancano le grandi personalità, non ci sono più. È tutto appiattito. Dopo i fatti personali, ormai stranoti, che mi hanno riguardato ho deciso di prendere le distanze da un certo mondo. Mi hanno coinvolto in alcuni progetti e ho accettato. Adesso sono ritornata a fare quello che mi piace, ero nata ricercatrice e adesso sono di nuovo lì da dove tutto è partito e sono felice così».
Venne criticata per essere transitata nello staff di Jole Santelli molto lontana dagli ideali di sinistra.
«Con Jole ci conoscevamo dai tempi del liceo. La nostra amicizia andava oltre le ideologie».
Le critiche le rimbalzano addosso o colpiscono?
«Colpiscono e fanno male».
Non sembra a vederla.
«Politica vuol dire salvare le apparenze. La realtà è altra cosa».
Cosa vide in lei Mancini?
«Forse un segnale di modernità. Una donna, amante dei libri, della ricerca, per lui poteva essere qualcosa di diverso, qualcosa di rottura».
Le mancano quei giorni da sindaca?
«No, non sono una nostalgica. Sono contenta di essere dove sono. Vivo in campagna, coltivo l’orto, ho gli animali, studio, viaggio spesso in Francia e sono tornata alle traduzioni dei grandi autori».
Il telefono non squilla più? Dica la verità.
«A volte. Ma ho la fortuna di vivere in un posto dove la linea va e viene».