L’odio e la lenta agonia
Non esiste allenatore al mondo, dopo aver perso 4-0 senza appello (e subito la bellezza di 12 reti nelle ultime sei gare), disponibile a dichiarare: «A tratti ho visto una buona squadra». Non c’è un solo uomo di sport sulla faccia della Terra che, analizzando la quarta sconfitta in sei partite, sarebbe pronto a sostenere:
Non esiste allenatore al mondo, dopo aver perso 4-0 senza appello (e subito la bellezza di 12 reti nelle ultime sei gare), disponibile a dichiarare: «A tratti ho visto una buona squadra». Non c’è un solo uomo di sport sulla faccia della Terra che, analizzando la quarta sconfitta in sei partite, sarebbe pronto a sostenere: «I ragazzi hanno lo spirito giusto, siamo molto compatti». Non c’è essere vivente nel cosmo in grado, in spregio alle difficoltà di un Paese al cospetto di uno dei periodi più drammatici della sua storia, di sorridere dicendo che «il Cosenza è un po’ in linea con la pandemia».
Per me Minamò potrebbe chiudersi qui. Con le parole dell’allenatore del Cosenza, Roberto Occhiuzzi, al termine della partita che ha sancito (meritatamente) la promozione dell’Empoli con due giornate di anticipo. E quelle del presidente, Eugenio Guarascio, nell’intervallo della gara, ai microfoni di RaiSport.
Parole mortificanti, perché come ha notato giustamente qualcuno queste persone rappresentano sportivamente Cosenza. E, in perfetta unione d’intenti con chi parlava di scarso appeal della piazza, lo stanno facendo nel modo peggiore. Un anno fa i Lupi tramortivano 5-1 un Empoli vittima di una stagione senza programmazione. A distanza di 10 mesi, i toscani hanno imparato dagli errori, il Cosenza invece si è sollazzato nel ripeterli.
Non erano questi i patti. Nessuno a inizio stagione aveva dichiarato come obiettivo quella salvezza all’ultimo respiro evocata invece a fine gara da Roberto Occhiuzzi (che il 12 febbraio scorso, a mercato chiuso, parlava di rosa forte). Ed è singolare che soltanto due volte in tutta la stagione (dopo le sconfitte con Brescia e Pisa, nel girone di ritorno) il tecnico dei rossoblù abbia ritenuto necessario stigmatizzare (in punta di piedi, però, ché questa dev’essere una rosa permalosa…) la prestazione dei suoi. Beccarsi un poker in faccia e parlare di buonaprestazione è proprio ciò che qualsiasi manuale vieta di fare nei contesti collettivi. Se una sconfitta 4-0 è una buona prestazione, la tua squadra non avrà mai alcuna motivazione a riscattarsi. E, forse, nemmeno ti rispetta più.
Ovviamente non è contro l’Empoli, a un passo dalla matematica promozione, che il Cosenza doveva fare punti. Qui però ci viene in soccorso il presidente Eugenio Guarascio. «Il nostro problema – ha detto ancora a RaiSport – sono i diciassette pareggi. Purtroppo, non riusciamo a fare quello che meritavamo». Val la pena sottolineare che, se il problema erano i pareggi, il Cosenza (che, se in tutto questo disastro avesse battuto anche solo Vicenza e Reggiana, ne avrebbe 39) ne aveva già inanellato dodici a febbraio. Se il problema era questo (non riuscire a vincere), c’era tutto il tempo utile per prendere Dionisi, anziché Mbakogu e Trotta, nel mercato di riparazione (o magari Parisi dall’Avellino a 250mila euro, come ha fatto l’Empoli, un anno fa, anziché raccattare terzini di terz’ordine). E, se il problema era questo, perché non è stato fatto?
Forse, di programmato c’è solo l’agonia. È una parola che mi pesa moltissimo usare. Perché l’agonia, quando ne riconosci i contorni addosso alle persone e alle cose che hai a cuore, desideri soltanto che finisca presto.
Purtroppo, i contorni di questa agonia li ho visti mesi fa. E l’ho scritto più volte. L’ho vista negli inutili tocchi di suola di Tremolada (che con Romagnoli e Nikolau al posto di Scognamiglio è diventato il tenero cucciolotto con le orecchie basse che abbiamo ormai imparato a conoscere), nelle corse incespicate e senza senso di Carretta, nelle marcature smutandate di Idda e nell’ostinazione di chi ha continuato, dopo caterve di errori e punti persi, a schierare lui e Corsi nei ruoli di difensore centrale ed esterno a tutta fascia.
Finalmente l’agonia di questa stagione si riduce a due partite. Difficile che il Cosenza faccia punti col Monza, se approccerà la gara con lo spirito della scampagnata in treno a Empoli (per Lignano Sabbiadoro si potrebbe invece provare con BlaBlaCar). E dunque già una vittoria del Pordenone col Venezia e dell’Ascoli col Cittadella chiuderebbero i giochi. Cittadella e Venezia sono già matematicamente certe di disputare i playoff e fuori dalla lotta per i gradini più alti – e io, fossi in loro, con due partite in quattro giorni, penserei già agli spareggi promozione. Qualche speranza la lascia il Pordenone: il fallo da rigore che ha deciso il match con la Salernitana è la prova di una squadra in grossa confusione.
Tuttavia, la verità è che già venerdì sera, senza i tre punti, il Cosenza potrebbe ritrovarsi matematicamente in serie C a tre anni dalla promozione. Oppure, complici gli errori degli altri (ma proprio di tutti gli altri), rimandare tutto all’ultima giornata, quando ai Ramarri basterebbe comunque un pareggio per centrare la salvezza diretta.
Non c’è niente di dignitoso in tutto questo. Ed è difficile sostenere una squadra senza dignità, anche se ce l’hai sulla pelle da trentaquattro anni. Qui c’è solo spazio per la faciloneria con cui il presidente Guarascio azzarda paragoni tra il Cosenza e il Covid (e gli esiti di questo metodo nella gestione calcistica). E per l’inadeguatezza di un tecnico che parla di spirito giusto dopo una goleada. Di giusto, per una stagione così, c’è solo il sipario. Per tutti. E tanti, tanti fischi. Comunque vada a finire.