martedì,Maggio 14 2024

Cosenza, confermata la condanna all’ergastolo di Francesco Patitucci

Il boss è stato riconosciuto colpevole anche in Appello del duplice omicidio di Marcello Gigliotti e Francesco Lenti commesso il 2 febbraio del 1986

Cosenza, confermata la condanna all’ergastolo di Francesco Patitucci

Ergastolo confermato per Francesco Patitucci, riconosciuto colpevole, anche in Appello, del duplice omicidio di Marcello Gigliotti e Francesco Lenti. L’attuale boss di Cosenza, oggi sessantaduenne, è stato condannato al massimo della pena per un crimine commesso quando di anni ne aveva solo venticinque. Risale infatti al 2 febbraio del 1986 l’uccisione di Lenti e Gigliotti, all’epoca giovani rapinatori in quota al clan Pino-Sena, lo stesso di cui faceva parte Patitucci. L’ipotesi, riscontrata ancora una volta in aula, è che entrambi siano rimasti vittime del fuoco amico, epurati perché ormai invisi al loro stesso gruppo criminale. A nulla sono valse le confessioni, giunte in corso d’opera, di altre due persone implicate nella vicenda, Gianfranco Ruà e Gianfranco Bruni, anche loro esponenti della vecchia malavita, che già durante il primo grado di giudizio, si erano assunti la responsabilità di quelle morti, escludendo la partecipazione di Patitucci. Nulla da fare. I giudici non hanno dato loro alcun credito, tant’è che i due, già ergastolani, hanno incassato un nuovo fine pena mai ciascuno in abbreviato. La loro condanna è ormai definitiva, quella di Patitucci, invece, è approdata oggi al secondo grado di giudizio. Il sessantaduenne è detenuto anche nell’ambito del processo “Reset”.

Per ricostruire la vicenda, gli investigatori della Dda di Catanzaro si sono affidati soprattutto alle indicazioni di tre pentiti: Pierluigi Berardi, Umile Arturi e Franco Pino, con quest’ultimo nel ruolo a lui consueto di accusatore e accusato. Anche l’ex boss dagli occhi di ghiaccio, infatti, era imputato nel processo ed è stato condannato a otto anni di reclusione in qualità di mandante del duplice omicidio. Rispetto a questi fatti, però, il diretto interessato non si è mai autoaccusato, anzi. Ecco in sintesi la sua versione dei fatti, resa nel 1995, all’atto del suo pentimento, e poi ribadita in aula durante il processo.

All’epoca, Lenti e Gigliotti sono due affiliati del suo clan, specialisti della rapina a mano armata e negli omicidi, ma non sempre mettono la loro arte criminale a disposizione del gruppo. Due cani sciolti, dunque. E in quanto tali, compiono una serie di passi falsi. Uno su tutti: inimicarsi il vecchio padrino Antonio Sena. In quel periodo, infatti, un importante notabile cosentino subisce un furto miliardario in ori e pellicce messo a segno proprio da Marcello e Ciccio. L’uomo si reca dall’amico Sena, pregandolo di recuperare i suoi beni trafugati. Nell’ambiente, circola già voce che a eseguire il colpo siano stati Lenti e Gigliotti. E così, Sena li convoca entrambi, ordinando loro di restituire il maltolto. Per il boss, è una questione di prestigio, ma i due banditi, per nulla intimoriti, rispondono picche. Anzi, Gigliotti, il più fumantino dei due, reagisce pure con insolenza. Morale della favola secondo Pino: Sena gliela giura a entrambi.

L’occasione di regolare i conti si presenta poco dopo. A ottobre del 1985, infatti, Gigliotti uccide il cognato di Carmine Pezzulli, crimine per cui in seguito sarà condannato l’innocente Francesco Masala. E non solo. Sempre lui, Gigliotti, mosso da rancori personali se ne va a dire in giro che, ben presto, avrebbe fatto fuori pure Ferdinando Vitelli, il meno noto dei tre fratelli gangster. All’epoca, il crimine cosentino è in piena evoluzione. I due clan un tempo contrapposti (Pino- Sena da un lato, Perna-Pranno-Vitelli dall’altro) sono già pronti a stipulare la pace, in vista dell’avvento dei grandi appalti da spartire in armonia e senza più spararsi addosso. È in questo contesto che Antonio Sena avrebbe trovato gli elementi utili per compiere la propria vendetta. Pino, infatti, si trova in carcere e, a suo dire, don Antonio persuade i ragazzi a lui più vicini che quel Gigliotti lì, rappresenta un pericolo. «Questo ci fa tornare di nuovo in guerra, va fermato». Su di lui, inoltre, circola un’altra brutta voce: che registra dei nastri in cui elenca i crimini commessi negli anni, facendo pure i nomi dei suoi complici. In virtù di ciò, si stabilisce stabilito di farla finita con lui. E di conseguenza, con il fido Lenti.

Il 2 febbraio del 1986, di domenica, li attirano nella campagna di Rende, per una frittoliata che si rivelerà invece una trappola mortale. Le circostanze della loro fine, Pino sostiene di averle apprese una volta uscito dal carcere dagli stessi autori del massacro. Lenti viene ucciso quasi subito, con un colpo di fucile esploso a bruciapelo. Più dolorosa, invece, è la sorte che attende Gigliotti. Lo immobilizzano e, per terrorizzarlo, lo fanno assistere al macabro spettacolo della decapitazione del suo amico. Subisce un interrogatorio intervallato da una serie di torture. Gli chiedono conto di quelle registrazioni, ma lui nega. I suoi assassini gli credono, così almeno sostiene Pino, ma ormai non possono più tornare indietro. Uccidono anche lui e poi si sbarazzano dei corpi. Li portano sulla montagna di Falconara Albanese, utilizzando la Fiat Ritmo di Gigliotti poi abbandonata sul posto e data alle fiamme. Forse meditano di tornare in un secondo momento per distruggerli, ma la neve che cade copiosa in quei giorni modifica il corso degli eventi. Il 7 febbraio, un cacciatore trova i cadaveri semisepolti sotto la coltre bianca. Ha inizio allora un mistero destinato a protrarsi per quasi quarant’anni. E su cui oggi, forse, la giustizia ha apposto la parola fine.