‘Ndrangheta a Cosenza, l’enigma Ruà: detenuto modello o boss irriducibile
La Dda lo ritiene ancora attivo sulla scena criminale nonostante sia in carcere da quasi trent'anni, il processo "Reset" chiarirà pure questo mistero
Tra i 245 imputati dell’inchiesta “Reset” ce n’è uno che è in carcere da quasi trent’anni, ma che per gli inquirenti è personaggio ancora attuale nel contesto del crimine cosentino. Si tratta di Gianfranco Ruà, noto alle cronache per essere stato uno dei protagonisti più attivi (e più oscuri) negli anni delle guerre di mafia a Cosenza. Il suo coinvolgimento nella più recente vicenda giudiziaria scaturisce dal ritrovamento di un pizzino effettuato nel 2013 a casa di Antonio Illuminato.
Il pizzino tra armi e droga
Quel giorno, infatti, oltre a un arsenale di armi – fra cui un kalashnikov – e ben cinque chili di stupefacenti, i carabinieri rinvengono anche una sorta di copiata, la cosiddetta carta d’identità dello ‘ndranghetista. E nell’elenco dei nomi che avrebbero tenuto a battesimo l’allora neofita Illuminato, figura anche quello di Ruà. Nel 2017, la Dda è andata a riesumare quell’indagine, conclusasi all’epoca solo con la condanna del custode di armi e droga. Quattro anni dopo, il fascicolo è stato riaperto per iscrivere nel registro degli indagati anche i nomi delle persone evocate nella copiata di Illuminato. Per tutti loro è scattata l’accusa di associazione mafiosa.
Un nome per tutte le stagioni
Per tutti, compreso Ruà. Del resto, le diverse Dda succedutesi dal 1994 a oggi non hanno mai smesso di dedicargli un “pensiero”. Da Ruà-Perna a Ruà-Lanzino, passando per Ruà-Patitucci, sono tantissime le inchieste giudiziarie dell’ultimo trentennio che vedono il suo nome associato alla ragione sociale della cosca di turno. Molto spesso, anzi quasi sempre, senza che il diretto interessato figurasse poi nell’elenco delle persone indagate. Stavolta, invece, gli investigatori hanno sopperito a questa lacuna. Il capo d’imputazione confezionato per lui, infatti, lo inquadra «come storico capo dell’associazione e simbolo del potere criminale da essa esercitato sul territorio, in nome del quale il clan continua a operare e al quale viene pertanto assicurato, mediante ripartizione dei proventi illeciti confluiti nella “bacinella” della consorteria, il sostentamento economico in carcere nonché quello ai suoi familiari in libertà». Ma chi è davvero Gianfranco Ruà?
Sicario “laico” di ‘ndrangheta
Cominciamo col dire chi era. Già braccio destro del boss Franco Pino, gangster per vocazione e non per necessità, specializzato in rapine e assalti a treni portavalori, ha messo la propria firma su diversi omicidi eseguiti dal suo gruppo tra il 1981 e il 1992. Malgrado sia considerato da sempre un boss, non è battezzato secondo i riti di ‘ndrangheta. A sentire il suo mentore oggi pentito, perché «non ha mai creduto in queste cose». Tuttavia, la sua mafiosità è stata accertata al termine di “Garden”, il processo che ne segna anche l’apparente dissociazione dal suo vecchio ambiente. In seguito, infatti, si autoaccusa dell’omicidio dell’imprenditore e politico Dc, Pino Chiappetta, incassando una condanna a ventisei anni di carcere. I guai più grossi, però, lo raggiungono poco tempo dopo dietro le sbarre. Il maxiprocesso “Missing” su tutti, perché lo riconosce colpevole di altri quattro omicidi, fra cui il triplice Africano-Osso-Petrungaro consumato ad Amantea nell’81. Leggenda vuole che quel giorno, proprio lui li abbia uccisi tutti e tre con un solo colpo di fucile.
Manifesto generazionale
Al termine di “Garden”, subito prima di incassare la condanna, si produce in uno sfogo amaro contro il suo ex boss. Sono dichiarazioni spontanee che faranno epoca: «Pino per noi era un idolo, seguivamo tutto quello che diceva lui, era giusto non era giusto, noi lo eseguivamo alla lettera. L’abbiamo voluto bene, l’ho voluto bene forse più di un fratello, però adesso con la nostra carcerazione si è preso la libertà. E questo insomma, lui, il capo, è fuori e noi qua non si sa quando usciremo (…) Era un’infatuazione, lui era come lo portavano i giornali, insomma, uno si innamorava di lui, delle sue gesta, delle sue cose e ci siamo andati dietro. Ci sono andato dietro».
Fornaio
Dicevamo, quasi trent’anni in cella con una lunga permanenza al 41bis. Metà della sua vita, insomma, considerato che di anni, lui, ne ha oggi 62. Un periodo durante cui Ruà ha saputo rigenerarsi con la meditazione orientale, la lettura e il lavoro. Ha imparato un mestiere, quello del fornaio, e insieme ad altri carcerati prepara pane e taralli che dalla casa circondariale di Parma finiscono poi nelle mense Caritas della zona. Nei rapporti stilati dal personale penitenziario è indicato come «detenuto modello». È anche iscritto al secondo anno di Scienze dell’educazione. In futuro potrà fare il maestro di scuola, ovviamente dietro le sbarre. E’ diventato pure vegetariano.
Lettere dal carcere
Subito dopo il ritrovamento del pizzino a casa Illuminato, Ruà prende carta e penna e scrive all’allora pubblico ministero della Dda di Catanzaro, Pierpaolo Bruni, lamentandosi con lui di essere stato tirato in ballo ancora una volta per fatti «che non lo riguardano più da anni». Dice di aver appreso la circostanza dai suoi familiari che a loro volta l’hanno saputo dai giornali. «Mi dovete credere – spiega rivolto a Bruni – ve lo dico con coscienza e in sincerità: che io sia portato come capo di qualcosa, non è vero». Fra i vari passaggi della lettera, questo è forse il più significativo: «Una cosa sola so: dopo tante sofferenze non darei mai e poi mai un consiglio a una persona rischiando di farla finire in carcere. La vita è talmente breve che sprecarla non ha senso. È scemo sia chi dà consigli illeciti sia chi li accetta».
Testimone per un amico
La Dda, però, ritiene di avere in mano un’ulteriore prova della sua tutt’altro che sopita verve criminale: la falsa testimonianza resa da lui e da Gianfranco Bruni – un altro della vecchia guardia – sulla scena del processo Lenti-Gigliotti. In quel caso, Ruà si sarebbe attribuito la colpa per salvare il vecchio compagno d’armi, Francesco Patitucci, dall’accusa di aver preso parte anch’egli al duplice e terrificante omicidio avvenuto nel 1986. Il risultato è che, alla fine di quel processo, tutti e tre hanno incassato la condanna all’ergastolo, ma per Ruà e Bruni è scattata l’accusa suppletiva di favoreggiamento aggravato dalle finalità mafiose. Chi è allora Gianfranco Ruà? Un boss ancora operativo, una stella polare per mafiosi conclamati o aspiranti tali oppure un uomo inseguito dai fantasmi del suo passato? Un enigma ormai trentennale che il processo “Reset” ormai alle porte potrà finalmente risolvere.