giovedì,Marzo 28 2024

L’odissea di un recupero-dati ai tempi della memoria digitale

Quanto costano i ricordi? Quanto costa conservarli? Le foto di un viaggio, i video di un momento irripetibile, le impressioni su un posto nuovo annotate in fretta sull’iPad o sul telefonino? Si scatta o si scrive e si lascia tutto lì, facile facile, un gran lusso che consente di andarli a risfogliare ogni volta che

L’odissea di un recupero-dati ai tempi della memoria digitale

Quanto costano i ricordi? Quanto costa conservarli? Le foto di un viaggio, i video di un momento irripetibile, le impressioni su un posto nuovo annotate in fretta sull’iPad o sul telefonino? Si scatta o si scrive e si lascia tutto lì, facile facile, un gran lusso che consente di andarli a risfogliare ogni volta che ci va, senza dover scavare faticosamente nelle meningi della memoria testando di volta in volta l’inevitabile sbiadimento delle immagini. Perché l’andare del tempo non te lo puoi comprare neppure col botulino e tutti i fermo immagine del passato racchiusi nella mente non sono per sempre come i diamanti. Cosicché confidavo – e pure tanto – nella capienza di un supporto, precisamente di un hard disk esterno.

Me lo aveva regalato un’amica al compleanno quando avevo prospettato l’idea di trasferire (di salvare) i dati dal tablet che mi aveva accompagnato per parecchi anni accumulando qualcosa come 5mila file. Però, c’è un però: NON esiste un apparato tecnologico sicuro. Nonesìste, lezione numero uno dell’immaginaria scuola della tecnologia a cui tutti dovremmo essere obbligati a iscriverci come alla scuola elementare.

E un giorno, allora, all’improvviso. Come il titolo di un film: un giorno, all’improvviso, il patatrac. Succede che, fatto il backup al cellulare, dovevo aggiungere in archivio materiale su materiale, foto su foto su foto. Più altri video su video su video. E invece. Apro il suddetto hard disk esterno, sento un lieve rumore come di un motore ingolfato. L’ultima volta mi erano comparse migliaia di immagini, il viaggio a New York, Parigi, mia nipote appena nata, il mare, l’estate. Ora nulla, il bianco totale, il vuoto. Lì per lì ho pensato che il cavetto non fosse inserito bene. Stacco. Riattacco. Uguale a prima, lo sconforto, dentro non c’è più niente: solo il rumore sussurrato di un ferretto che annaspa. Avvio le ricerche, Google a palla, domande, blog, commenti, risposte che non confortano. Mi si è aperto un mondo fino a questo momento ignoto. Anche perché di foto invece non se ne aprivano.

Ci sono arrivata tardi, nonostante il mio amico Luca, esperto e pronto soccorso informatico, me lo ripetesse come un mantra: “Non esiste niente di tecnologicamente sicuro, niente-niente”. In breve era andata così (analisi del senno di poi): spostando tutti i dati dal mio vecchio iPad in quella scatoletta bianca carina e simpatica (avete presente le amiche traditrici? Quelle che mentre ti sorridono nascondono un coltello dietro la schiena?) l’aggeggino mi era a un certo punto cascato dalla scatola, fra l’altro senza neppure toccare terra, perché con riflessi da Spiderman che lancia la ragnatela lo avevo riafferrato a velocità supersonica. Però questo non conta. Sempre dopo, a danno fatto, mi è stato spiegato che questi strumenti informatici sono delicatissimi e basta un urto impercettibile perché la testina all’interno si sposti compromettendone contenuti e funzionalità.

Altra parola nuova, ché nelle tragedie impari un sacco: “te-sti-na” (che non è un sinonimo da usare per ricordare un nostro ex). Testina, ovvero ciò che su ogni piatto è preposto a lettura e scrittura. Va da sé che da quel movimento d’urto impercettibile, come una mossa delicata di fianchi davanti allo specchio e mica la mano alla cintura sul tagadà, la testina me l’ero giocata come quelli che escono a comprare le sigarette: tu li aspetti convinta che torneranno a farsi vivi  però loro non tornano che sono già morti. Insomma, ero stata abbandonata da una testina di c., e per l’ennesima volta. Dacché credevo di fare una semplice operazione di routine, due minuti e basta, sono entrata nella galassia del panico: Houston, abbiamo un problema. E mo? Ricerche a palla su google, parole-chiave, chiamate a raffica a Luca il mio “ET telefono-casa”. Ho scoperto improvvisamente e senza guardare alcuno speciale televisivo termini come “Head Crash”, ovvero: si parla di Head Crash quando le testine di lettura/scrittura di un hard disk vengono a contatto con la superficie dei piatti magnetici.

Questa collisione molto spesso produce danni notevoli, che possono portare alla perdita completa dei dati contenuti nel disco. Peccato che la collisione in questione era stata un mio impercettibile afferrare in volo l’aggeggio che stava cadendo. Sempre tutta questione di vibrazioni insomma: la distanza tra i due piatti su cui avanti e indietro si muovono le testine di lettura hanno una distanza infinitesimale (visto che cultura?) e di conseguenza eccessivi urti o cadute possono portare il dispositivo alla fatidica condizione di “head crash”. È come se sentissi Luca Carboni in sottofondo che mi canta “Il mio cuore fa ciok!”. Sì, quindi che si fa? Per individuare un head crash occorre operare sul dispositivo in camera bianca, cioè in un ambiente che sia sterilizzato e puro. È possibile recuperare i dati a seguito di head crash? Internet spiega: se il dispositivo ha subito un danno da head crash è possibile tentare un recupero parziale escludendo la superficie danneggiata.

SONO FINITA A LAMEZIA TERME, SENZA SPEDIRE NULLA CHE NON FOSSE SOLTANTO ME STESSA ATTRAVERSO UN VIAGGIO IN MACCHINA DI UN’ORETTA.

 

L’esito del tentativo dipende da molti fattori tra cui l’entità del danno subito. Se il danno è esteso, con ogni probabilità il recupero non sarà possibile. Più ne leggevo e più passavo dall’avere l’ottimismo di un bambino al vedere di colpo tutto nero come quando di botto va via la luce. Ho fatto ricerche, mi sono documentata, ho persino trovato un numero sul web e ho contattato un centro toscano con un tecnico gentile che mi ha rincuorato: deve spedirci lo strumento, valuteremo il danno, le faremo un preventivo. Trauma aggiunto a trauma, se pensavo all’ipotesi di spedire chissà dove i miei ricordi malmessi dentro una scatolina malmessa. Non mi sono data per vinta e allora cercando, chiedendo, cercando e chiedendo, ho trovato un centro molto più vicino. Sono finita a Lamezia Terme, senza spedire nulla che non fosse soltanto me stessa attraverso un viaggio in macchina di un’oretta.

Tre viaggi in tutto, per essere precisi. E niente di certo, perché in questi casi nessuno – nemmeno Steve Jobs dall’oltretomba – è in grado di garantire che alla fine il recupero dei dati sarà del 100%. “Paradossalmente – mi avvertirono da Lamezia – siamo in grado di recuperare file già cancellati o quelli all’interno di un supporto andato in fiamme, ma quando si tratta della testina, sempre lei, il risultato è un altro mistero di Fatima”. A questo punto della storia secondo me pure il perfido Joker si augurerebbe un lieto fine. Facendola insomma breve: dopo un’attesa di circa un mese comprensiva dell’arrivo dall’America del supporto che fosse compatibile con quello rotto, ho riavuto le mie foto e i miei video e pure qualcos’altro di cui non mi ricordavo l’esistenza. Dunque quanto costano i ricordi? I miei sono costati 800 euro (“un prezzo di favore signorina”), benzina a parte e stato di insonnia fino all’esito della riparazione. Iva compresa.  

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