I diritti, i vaccini e i veleni: la riflessione dell’avvocato Guadagnuolo
di Paolo Guadagnuolo* – E’ successo tanti anni or sono ma ne custodisco un ricordo ancora vivido. Ero un novello dottore in giurisprudenza, alle prese di un estenuante tirocinio professionale che un giorno mi portò, nell’attesa della trattazione della causa da parte del mio maestro, a sbuffare d’impazienza lungo il corridoio attiguo all’aula d’udienza. Fui
di Paolo Guadagnuolo* – E’ successo tanti anni or sono ma ne custodisco un ricordo ancora vivido. Ero un novello dottore in giurisprudenza, alle prese di un estenuante tirocinio professionale che un giorno mi portò, nell’attesa della trattazione della causa da parte del mio maestro, a sbuffare d’impazienza lungo il corridoio attiguo all’aula d’udienza.
Fui sorpreso, proprio in quel momento, da un vecchio avvocato di passaggio che, senza retorica o paternalismi, mi rivolse tali decise quanto profetiche parole: figlio mio, se non hai pazienza, devi cambiar mestiere. Ebbene, non ho cambiato mestiere e nel frattempo ho imparato la pazienza: non dai codici, dalle leggi, dai commentari, dai fascicoli, dalle sentenze dove, a mia memoria, non ho mai scorto questa parola; bensì dall’esperienza, che tento anch’io faticosamente di abbozzare giorno dopo giorno al riparo della mia toga. Perché ce ne vuole davvero tanta, da sempre, ma oggi in proporzioni quasi incolmabili.
Parlo dal mio modesto e parziale angolo visuale di penalista, che mi vede già su di un risicato fronte opposto ad una invincibile armata, quella della magistratura requirente e dei suoi gangli polizieschi, con buona pace della oramai logora credenza che il sistema risponda al principio della parità delle armi. Ma mi dico che ci sta; che le spalle, grazie alla toga, sono più larghe; che la libertà è una fascinosa dea senz’armatura, che tende al vento i propri slanci, nella indomita speranza di affiancare l’altra dea superstite, questa si con tanto di spada, scudo ed alambicchi di precisione. E tuttavia, la già oscura attualità è resa ancor più cupa per un avvocato dalla torbida cronaca che lo addita perfino, nella sospirata stagione dei vaccini in corso, come uno scaltro approfittatore.
Non bastavano le frecciate al corrosivo veleno della connivenza; ci voleva anche questo, per dannare l’avvocato ad una più profonda bolgia dantesca: l’ignominiosa rivendicazione di un privilegio in una situazione che dovrebbe invece averci insegnato che il virus è uguale con tutti. Sarà allora colma la misura? Giammai! Anche se la tentazione, anzi la provocazione è fortissima. E come placarla o risponderle, allora? Semplicemente aspettando il mio turno, senz’alcun segno di cedimento o d’insofferenza, come mostrai invece quell’indelebile mattino da imberbe praticante. E chissà forse pure rimarcando a qualcuno dei più acerrimi pubblici fustigatori della mia professione che è nello studio di un avvocato che un uomo spesso ritrova la sua voce … e non a vanvera. (*avvocato penalista del foro di Cosenza)