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“TRIBUNALE” | Le ritorsioni a Corigliano senza l’aggravante del metodo mafioso

A leggere il nome di Filippo Solimando vien da pensare che l’inchiesta in qualche modo sia passata sulle scrivanie della Dda di Catanzaro. Ed infatti così è stato. Le ragioni del ritorno del fascicolo alla procura di Castrovillari sono da ricercare, ovviamente, nell’insussistenza dell’aggravante del metodo mafioso non ritenuto configurabile rispetto ai capi d’accusa ascritti

“TRIBUNALE” | Le ritorsioni a Corigliano senza l’aggravante del metodo mafioso

A leggere il nome di Filippo Solimando vien da pensare che l’inchiesta in qualche modo sia passata sulle scrivanie della Dda di Catanzaro. Ed infatti così è stato. Le ragioni del ritorno del fascicolo alla procura di Castrovillari sono da ricercare, ovviamente, nell’insussistenza dell’aggravante del metodo mafioso non ritenuto configurabile rispetto ai capi d’accusa ascritti ai ventuno indagati.

Solimando infatti è ritenuto dalla magistratura antimafia il referente del clan degli zingari di Cassano all’Jonio a Corigliano. Fu arrestato insieme ad altre 33 persone nell’inchiesta “Gentleman”, una maxi indagine condotta dalla Guardia di Finanza contro l’ingente traffico internazionale di stupefacenti tra la Calabria e l’Albania. E in primo grado è stato anche condannato per narcotraffico a 20 anni di carcere, ma assolto dall’accusa di associazione mafiosa.

L’indagine “Tribunale”, portata avanti dai carabinieri della Compagnia di Corigliano e coordinata dal procuratore capo di Castrovillari, Eugenio Facciolla, prende origine dall’incendio avvenuto l’11 aprile del 2013 ai danni di un appuntato dei carabinieri in servizio presso la Compagnia di Corigliano.

Atto intimidatorio commesso in un più ampio programma criminoso che vedeva come protagonista la cosiddetta “banda dello scalo”, infastidita dai continui posti di blocco dei militari dell’Arma in tutto il territorio locale. Dietro a quel programma criminale c’erano furti, rapine e altri reati. A commettere l’incendio fu «Pierluigi Filadaro, vertice, insieme a Alessandro Sposato, della banda».

Ma l’ingresso nel panorama delinquenziale di un nuovo gruppo non sarebbe stato accettato di buon grado da quelli del “centro storico”, ovvero un gruppo di persone facenti capo a Filippo Solimando. Il suo gruppo era «proiettato sempre alla commissione di delitti contro il patrimonio, ma caratterizzato da una maggiore caratura delinquenziale. In particolare, nel corso delle indagini relative al suddetto incendio si è avuto modo di constatare come alcuni partecipanti della “banda dello scalo” fossero stati vittime di violenti aggressioni, tutte riconducibili al contrapposto sodalizio, intenzionato a precludere la consumazione dei delitti oggetto del proprio programma criminoso da parte di soggetti estranei alla loro consorteria». Parole che farebbero pensare a una associazione a delinquere di stampo mafioso, volta al totale controllo del territorio attraverso il vincolo delle intimidazioni, che la giurisprudenza tradizionale ormai ha cristallizzato. Ed invece, quel fascicolo ha fatto un viaggio di andata e uno di ritorno.

Le indagini dei carabinieri di Corigliano quindi si sono sviluppate in due direzioni: accertare l’esistenza della “banda dello scalo” e quella del “centro storico”. Siamo nel 2013, anno in cui tante cose riferite da alcuni pentiti su Filippo Solimando sono ancora coperte dal segreto istruttorio.

L’attività investigativa si è avvalsa anche di intercettazioni telefoniche, riprese di video sorveglianza e pedinamenti. E quando gli investigatori iniziarono a notare i comportamenti sempre più violenti di una parte degli indagati portarono gli atti a Catanzaro. Ma il primo giugno del 2016 la palla passa in mano al procuratore capo Facciolla che mette insieme i pezzi del mosaico e porta a conclusione l’indagine. (a. a.)

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