venerdì,Marzo 29 2024

Trovami un modo semplice per uscirne

La vittoria in extremis e in rimonta nel derby rimette il Cosenza in corsa per la salvezza. Al di là degli appelli untuosi all'unità del tifo, forse è il momento giusto per riflettere sulle conseguenze dello sciopero in corso. Per difendere le motivazioni profonde che ne stanno alla base.

<strong>Trovami un modo semplice per uscirne</strong>

Negli anni Novanta, quando il campionato italiano era considerato (con molte ragioni) il più bello del mondo, io ero un grande fan del calcio inglese. Dirvi l’origine della folgorazione non saprei (forse parallela a quella per il brit pop), ma assai spesso accadeva che le squadre britanniche venissero per me persino prima di quelle italiane. Mi emozionava l’idea di una città di trecento mila abitanti come Nottingham sul tetto d’Europa per due volte di fila, il tifo della Kop, la vittoria dell’Arsenal raccontata da Nick Hornby, George Best e la paziente ricostruzione del Manchester United dopo la tragedia di Monaco. E quindi potete immaginarvi i miei salti di gioia per questi centoventi secondi qui.

La vittoria nel derby di lunedì sera somiglia moltissimo a questa dei Red Devils. Certo, non era una finale di Champions (e noi non abbiamo in rosa né la classe di Scholes e Giggs, né la determinazione operaia di Solskjær), ma quella con la Reggina era la nostra finale. Quando all’89esimo Delic controlla in area il cross di D’Orazio, il Cosenza è una squadra battuta e, di fatto, retrocessa. Quando ventiquattr’ore dopo terminano i risultati della ventisettesima giornata, ha invece: abbandonato l’ultimo posto, avvicinato la zona playout a meno tre e la salvezza diretta a meno quattro.

Ovvio, non è che la doppietta di Marco Nasti ha trasformato la classifica nel paese delle meraviglie e Gargamella in Alice, ma può essere la scossa che mancava a questa squadra. Quella che serviva, dopo il naufragio di Como. Scossa che non arrivò dopo la vittoria col Palermo (seguirono tre pareggi striminziti) e nemmeno dopo quella col Parma.

Tutto in fondo è così semplice, cantavano i miei amati Verdena. E inutile, aggiungevano pure. Lo sarebbe pure mettersi a fare, ora come ora, dotte analisi tattiche. Quel ch’è certo è che il Cosenza può contare su due tasselli che sono mancati per tutto il girone d’andata: un portiere (Micai) e un terzino sinistro (D’Orazio). Un altro è Marras. Lo stesso Delic, se quel movimento in area con cui scodella sulla testa di Nasti il pallone dell’1-1 fa davvero parte del suo bagaglio tecnico e non è un caso fortuito, può rivelarsi un elemento utile. L’essenziale è non uscire con le ossa rotte dal Ferraris. Serve una partita gagliarda e attenta, nella quale si può perdere ovviamente, ma non essere massacrati o beffati all’ultimo secondo per una marcatura avventata su un calcio piazzato.

E la scossa, se c’è stata, serve proprio a questo. Non a credersi improvvisamente fenomeni, ma a capire che a questo punto del campionato molte partite sono contendibili – e saper restare in partita è più importante che dominarle (cosa che non sapremmo fare). Forse la rete dell’1-1 è stata figlia della disperazione, ma sono convinto che, senza quel gol, Nasti non avrebbe mai fintato il taglio tra i centrali per prendersi il vertice basso dell’area piccola e siglare il 2-1 finale. Debbo anche dire con molta onestà che queste caratteristiche da prima punta, in quindici presenze, nell’ex rossonero non si erano ancora mai colte (e, se c’è qualcuno che le ha intraviste, quello è sicuramente Viali), ma l’augurio è che questa doppietta possa averle sciolte come accaduto in passato a un altro bomber lombardo in rossoblù.

Sono innamorato dell’attacco di questo pezzo dei Verdena dal lontano 2006. Ogni volta che sento le parole Non cresci più, a tratti è normale mi viene da dire ehi, ma quello sono proprio io! E vale lo stesso sulla strofa successiva: non si arrende più, il mio cuore.

Non so davvero se la faccia sconsolata di Pippo Inzaghi a fine partita possa coincidere l’inizio della nostra rimonta salvezza. So che il cuore di nessuno si è arreso. Certi cuori battiti forse nemmeno ce l’hanno, ma di sicuro non si era arreso quello di chi era in campo, nonostante la modestia generale della rosa. Non lo ha fatto quello di chi era allo stadio, nonostante lo sciopero, perché come mi ha confessato un tifoso più anziano (ma non troppo) di me quanti altri derby in serie B potrò vedere in vita mia? E nemmeno quello di chi è rimasto fuori: chi pensa che qualcuno abbia potuto mai tifare contro il Cosenza può smettere di leggere questo blog.

Anzi, fermatevi tutti qui, perché so già che litigherò con molti per quello che sto per (e che mi costa moltissimo) scrivere. Che non è un appello, ma un ragionamento. Che non si fonda sul ricatto emotivo, ma tenta di riflettere proprio per evitarlo. E sulla consapevolezza che, forse, questo è l’ultimo momento utile per sottrarvisi. Dopo, sarà tardi.

Lungi da me voler indicare una rotta ad altri: non sono certo nemmeno della mia a quarantun anni. Ma a undici gare dalla fine del campionato, cinque delle quali in casa, per riprendere la canzone dei Verdena bisogna trovare un modo semplice per uscirne. Conosco i sacrifici personali e profondi che restano dietro allo sciopero del tifo. Quindi non ci penso nemmeno di unirmi a certe untuose esortazioni. Quel che credo, tuttavia, è che le battaglie hanno un obiettivo. E l’obiettivo non può coincidere in modo permanente con una e una sola strategia.

Se il motivo dello sciopero era dimostrare la forza del movimento ultras a Cosenza, questo è già avvenuto. Se era denunciare la tracotanza di certe scelte societarie, è stato svelato anche questo. E tuttavia la coerenza è una forma di disciplina che, portata oltre una certa soglia, rischia di ferire se stessi più che rivelare le fragilità degli altri. La radicalità di una posizione non può mai fare a meno dell’ascolto e dell’osservazione attenta del campo di battaglia.

Qui non si tratta di fumare calumet della pace o siglare armistizi, perché i contendenti non si sono mai riconosciuti reciprocamente. Anzi, uno non ha nemmeno gli strumenti per conoscere se stesso. Mentre l’altro, da sempre, è consapevole della reale importanza dell’oggetto della contesa. Che non è la presidenza, ma la maglia. Il rosso e il blu. Lasciarli nelle mani di chi, in fondo, non li ha mai rispettati col proprio agire rischia, a questo punto, di trasformarsi da resistenza in resa.

E se, in fondo, anche a me la retorica della serie B come patrimonio (con tutte le sue buone ragioni) aveva rotto le scatole già vent’anni fa; se la provincia ha abbandonato gli spalti almeno dal 1995; se gli sponsor dovrebbero averlo capito da un pezzo che sostenere economicamente questo giochino avrebbe un senso solo pretendendo un giochino vincente (o, perlomeno, non la solita casa caduta); se la contestazione in realtà è cominciata nel 2020 (poco prima del lockdown) e si è interrotta solo per senso di responsabilità (tradito, ça va sans dire, a colpi di minacce di Daspo da chi avrebbe dovuto cullarlo come un Sacro Graal); se l’accusa (vigliacca) di una tifoseria assente allo stadio come responsabile della retrocessione è già evaporata (guardate i numeri del settore ospiti lunedì a Genova e sciacquatevi la bocca); se insomma tutto questo è vero, c’è il pericolo di trasformare una salvezza sul campo con la tifoseria in sciopero nell’armatura più solida per chi comanda la nave. E, soprattutto, di vanificare in un attimo tutti i legittimi se di cui sopra.

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