mercoledì,Maggio 15 2024

«Nessun elemento per sostenere che Massimiliano D’Elia abbia ucciso Giuseppe Ruffolo per interesse della cosca»

Le motivazioni della Corte d'Assise d'Appello di Catanzaro valorizzano solo le dichiarazioni dei pentiti Mattia Pulicanò e Vincenzo De Rose ed escludono l'aggravante mafiosa e la premeditazione

«Nessun elemento per sostenere che Massimiliano D’Elia abbia ucciso Giuseppe Ruffolo per interesse della cosca»

La sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, in merito al delitto di Giuseppe Ruffolo, sebbene affermi la responsabilità penale di Massimiliano D’Elia, fa emergere tante circostanze che, dal punto di vista processuale, chiariscono meglio quanto avvenuto nel settembre del 2011 a Città2000 a Cosenza.

Il collegio giudicante, presieduto dal presidente Gabriella Reillo (consigliere Domenico Commodaro), nelle oltre 70 pagine di motivazione che hanno confermato la condanna, seppur riducendola rispetto a quella inflitta in primo grado dalla Corte d’Assise di Cosenza, fa una scrematura sui collaboratori di giustizia, indicandone due credibili rispetto alla conoscenza del fatto omicidiario. Parliamo di Mattia Pulicanò e Vincenzo De Rose. Gli altri – da Luciano Impieri ad Ernesto Foggetti – risultano (agli occhi dei giudici di secondo grado) attendibili dal punto di vista intrinseco, ma non utili ad individuare Massimiliano D’Elia quale autore del delitto di Giuseppe Ruffolo.

Omicidio Ruffolo, le deduzioni personali di alcuni pentiti cosentini

Il primo ad essere valutato è Luciano Impieri, ex appartenente del clan “Rango-zingari”, condannato per associazione mafiosa ed estorsione. «Luciano Impieri – scrivono i giudici – ha indicato quale fonti Maurizio Rango, Salvatore Ariello e Antonio Illuminato i quali si sarebbero limitati ad indicargli chi fosse Massimiliano D’Elia, nonché, genericamente, ad intimargli di stare alla larga da questi perché aveva ucciso Ruffolo; omicidio del quale Roberto Porcaro “si era preso i meriti” davanti a Lanzino in quanto così sarebbe cessata l’attività usuraria posta in essere dalla vittima al di fuori della compagine criminale». E aggiungono: «Dal narrato di Impieri non emerge in che modo costoro avessero avuto tali informazioni». E ancora: «La mancanza di qualsiasi informazione sulle modalità di acquisizione delle notizie da loro riferite non consente la verifica della loro attendibilità, e mina la valenza probatoria delle informazioni fornite dal collaboratore».

La Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro inoltre evidenzia che le dichiarazioni di Daniele Lamanna susciterebbero ancora maggiori titubanze. «Questi ha indicato quale fonte Pasquale Bruni, il quale parimenti si sarebbe limitato a presentargli Massimiliano D’Elia, senza fare esplicito riferimento all’omicidio di Ruffolo, ma riferendosi a una somma di denaro che era servita per l’allontanamento di D’Elia. Aggiungeva il collaboratore che nel gruppo “si sapeva” chi erano i latitanti, per cui egli stesso aveva collegato che D’Elia avesse ucciso Ruffolo. Riferiva infatti che “qualcuno” gli aveva detto “vedi il ragazzo che è passato con il motorino da solo, gli ha sparato due botte e se ne è andato”. Lamanna poi non ricordava se dell’omicidio gliene avessero parlato Rango, Franco Bruzzese o Ernesto Foggetti, sottolineando come D’Elia non avrebbe mai potuto commettere un omicidio «senza l’avallo di Patitucci e Porcaro». Ma questa, secondo i giudici, «è una mera deduzione del collaboratore».

L’analisi si sposta poi su Francesco Noblea. «Ha indicato quali fonti Tonino Abbruzzese e Luigi Abbruzzese, nonché il cugino Carlo Bruni. Anche in questo caso non è emerso in che modo detti soggetti, seppur inseriti nella criminalità organizzata ma non a stretto contatto con D’Elia, avessero avuto l’informazione che l’autore dell’omicidio Ruffolo fosse stato quest’ultimo». Stessa valutazione quando la Corte esamina le propalazioni di Edyta Kopaczynska che aveva indicato quale fonte «Umberto Arena, suo autista», il quale gli avrebbe riferito che «Ruffolo era stato ucciso da un ragazzo che lavorava presso la cooperativa del Cimitero di Cosenza e che, dopo l’omicidio, era scappato in Sudamerica». Per i giudici, valutando le altre indicazioni offerte dalla pentita, «non risultano precisate le modalità di percezione da parte di Arena delle notizie riferite alla collaboratrice».

Per quanto riguarda Ernesto Foggetti, invece, la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro ritiene che il suo narrato si fondi su deduzioni personali. «Da un lato, D’Elia si era “tolto il suo sassolino dalla scarpa”, dall’altro lato, la compagine criminale al contempo aveva fatto “una via e due servizi”». Così, «il “de relato” di Foggetti non è idoneo a costituire una adeguata chiamata in reità nei confronti dell’imputato». Identica valutazione per Giuseppe Montemurro, le cui dichiarazioni non indicano «i contesti di percezione delle notizie riferite» due soggetti.

Per il collegio giudicante, tuttavia, «il narrato dei collaboratori Mattia Pulicanò e Vincenzo De Rose risponde ai canoni dettati in tema di positiva verifica di attendibilità delle fonti “de relato” e di quelle indirette”. Nel primo caso, ovvero dell’ex pusher della cosca “Lanzino” di Cosenza nel territorio di Montalto Uffugo, Rose e Lattarico, «ha riferito che proprio il giorno dell’omicidio, in occasione di un permesso ricevuto per sostenere un esame all’università mentre era sottoposto alla misura degli arresti domiciliari aveva saputo» da due soggetti «dediti come lui allo spaccio di sostanze stupefacenti per la cosca “Lanzino-Patitucci”, alle dirette dipendenze di Porcaro, che quest’ultimo nella serata non aveva consegnato ai primi due la droga, come concordato, perché Massimiliano D’Elia aveva ucciso un soggetto».

Circa il movente, Pulicanò aveva riferito che a dire di Patitucci l’omicidio era stato commesso a causa di un’azione dettata da impeto per via della vendetta personale «legata alla vicenda del B-side». Sulla base di quanto detto da Pulicanò, la Corte ritiene attendibile che Porcaro fosse stato informato dell’omicidio la sera stessa, «data la volontà di spiegare la mancata consegna della sostanza stupefacente e la necessità di dare l’avviso di “stare fermi” per la presenza di forze dell’ordine nonché l’appartenenza alla medesima consorteria mafiosa che garantiva l’osservanza della regola dell’omertà».

In riferimento alla posizione dichiarativa di Vincenzo De Rose, la Corte rileva che lo stesso «ha appreso che l’omicidio Ruffolo era stato commesso da D’Elia da Pasquale Bruni mentre questi riferiva tale notizia al cognato all’interno della cella nel carcere di Cosenza». E ancora: «De Rose aveva assistito personalmente al fatto che Massimiliano D’Elia qualche giorno prima del colloquio si fosse recato sotto le finestre delle celle 6, 7 e 8 del carcere – dalle quali nell’ora d’aria, soggetti posti all’esterno potevano comunicare con i detenuti – e avesse detto a Pasquale Bruni che nei giorni successivi non sarebbe potuto più andare lì come faceva tutte le sere perché “spariva per un po’” e che poi gli avrebbe fatto sapere il motivo a mezzo della moglie dello stesso Bruni, durante i colloqui in carcere». Credibile, ancora, la questione relativa allo scooter che sarebbe stato utilizzato dall’imputato per uccidere Ruffolo e che un testimone confermò che fosse stato nella disponibilità dell’imputato qualche settimana prima dell’agguato mortale.

Omicidio Giuseppe Ruffolo, cade la premeditazione e l’aggravante mafiosa: ecco perché

La difesa di Massimiliano D’Elia, assistito dall’avvocato Fiorella Bozzarello, ha fatto breccia nei ragionamenti della Corte D’Assise d’Appello di Catanzaro, circa l’aggravante della premeditazione e dell’aggravante mafiosa. Ciò nasce dalla ricostruzione difensiva che ha disarticolato i moventi individuati dalla Corte d’Assise di Cosenza, ritenuti compatibili tra loro.

Ma i giudici di secondo grado hanno evidenziato come le propalazioni dei pentiti, in merito ai motivi che hanno portato all’eliminazione di Giuseppe Ruffolo, sono frutto «di deduzioni da parte degli stessi». E quindi «non vi sono elementi certi per concludere che D’Elia abbia agito anche su mandato del proprio gruppo delinquenziale ed anzi, sono emersi elementi di segno contrario». Come le intercettazioni telefoniche, svolte in ambito familiare dell’imputato, che non proverebbero quanto sostenuto dai giudici di primo grado, ovvero che D’Elia avesse commesso l’omicidio per un interesse della cosca».

In definitiva, la Corte valorizza il narrato di Mattia Pulicanò, inquadrando l’assassinio di Giuseppe Ruffolo come un delitto maturato per via di contrasti privati tra le rispettive famiglie che potrebbero essere generate dal tentato omicidio del B-Side, avvenuto a Rende qualche anno prima. Questi (e tanti altri) motivi hanno convinto la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro a ridurre la pena di Massimiliano D’Elia a 17 anni e 10 mesi di reclusione. Sentenza che la difesa impugnerà in Cassazione.

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