«Giuseppe Ruffolo ucciso da D’Elia con il placet della ‘ndrangheta»
Per la Corte d'Assise di Cosenza, Giuseppe Ruffolo è stato ucciso da Massimiliano D'Elia, perché dava fastidio alla 'ndrangheta cosentina.
La Corte d’Assise di Cosenza, presieduta dal presidente Paola Lucente (giudice a latere, Francesca De Vuono) ha depositato le motivazioni che hanno portato alla condanna di Massimiliano D’Elia (28 anni e 6 mesi di reclusione), accusato dalla Dda di Catanzaro di essere l’esecutore materiale dell’omicidio di Giuseppe Ruffolo, ucciso nel settembre del 2011 nella zona di Città2000 a Cosenza.
Il collegio giudicante, nonostante il lavoro difensivo svolto in udienza dall’avvocato Fiorella Bozzarello, ha valutato in maniera positiva ogni elemento di prova portato nel corso del dibattimento dal pubblico ministero Vito Valerio che, durante la requisitoria, aveva chiesto il “fine pena mai” per Massimiliano D’Elia. Inchiesta riaperta dalla Distrettuale di Catanzaro negli ultimi anni, grazie alle propolazioni rese dai collaboratori di giustizia, ritenuti intrinsecamente credibili agli occhi della Corte d’Assise di Cosenza, pur avendo fornito due moventi diversi rispetto a quello individuato dai giudici del tribunale bruzio.
Il primo movente
Nel primo caso, i pentiti hanno detto che il delitto di Giuseppe Ruffolo era maturato per «questioni personali conseguenti alla precedente sparatoria al B-Side intervenuta tra l’esecutore materiale e un soggetto, per la quale risulterebbe essere stato ingiustamente condannato un personaggio molto vicino alla vittime e la lite tra Ruffolo e il padre di Carmine d’Elia». L’uomo condannato per il tentato omicidio del “B-side”, all’epoca noto locale della “Movida” universitaria di Rende, è Andrea Molinari che da anni professa la sua innocenza, rafforzata da numerose dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che hanno escluso la sua partecipazione al delitto.
Il secondo movente
Il secondo movente, invece, è legato «alla criminalità organizzata, da individuarsi nel fatto che l’organizzazione criminale, all’interno della quale era inserito Massimiliano D’Elia e che aveva dato l’assenso al delitto, non tollerava l’attività usuraia posta in essere dal Ruffolo e dal di lui padre, che interferiva con gli interessi economici del clan operante a Cosenza di cui al momento era reggente Roberto Porcaro».
La Corte d’Assise di Cosenza identifica questo gruppo nel clan “Lanzino-Patitucci”, che vedeva «in Massimiliano D’Elia un elemento attivo dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti e all’attività estorsiva per conto della cellula riferibile a Roberto Porcaro, della quale faceva parte anche Illuminato Antonio», posizione archiviata prima del processo così come quella di Porcaro, che nel giorno del blitz della Dda di Catanzaro fu arrestato, per poi essere scarcerato per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza da parte del Riesame di Catanzaro.
L’alibi fornito da Massimiliano D’Elia
Per arrivare a una verità processuale, che doveva dimostrare l’innocenza di Massimiliano D’Elia, la difesa dell’imputato ha fornito alla Corte d’Assise di Cosenza una ricostruzione diversa da quella prospettata dalla pubblica accusa. Nel caso di specie, si tratta di una discussione che Giuseppe Ruffolo avrebbe avuto con altro soggetto.
Ciò non è bastato quindi a far emergere la non colpevolezza di Massimiliano D’Elia, nonostante la Corte abbia comunque dato atto del fatto che l’imputato non si fosse allontanato dall’Italia, ma ritenendolo non credibile quando ha fornito l’alibi, secondo cui la sera dell’omicidio si trovava all’Unical con i suoi amici per una serata universitaria in compagnia, tra le altre cose, di una ragazza di Mandatoriccio, che aveva conosciuto tempo addietro.
Così come non sono state ritenute sufficienti, tantomeno credibili, le testimonianze dei vari esponenti della criminalità organizzata cosentina, quali Francesco Patitucci, Salvatore Ariello e Gennaro Presta. Tutti e tre hanno dichiarato di non essere mai venuti a conoscenza di notizie riguardanti l’omicidio Ruffolo, escludendo di aver parlato nella loro vita con l’imputato Massimiliano D’Elia.
Le motivazioni dell’omicidio Ruffolo
In conclusione, la Corte d’Assise di Cosenza ha ritenuto Massimiliano D’Elia responsabile dell’assassinio di Giuseppe Ruffolo, ucciso con una pistola calibro 7,65. «Risulta acclamato dalle fonti dichiarative e captative sopra riportate che il mezzo utilizzato per l’esecuzione del delitto rinvenuto bruciato dopo l’agguato, lo scooter “Aprilia Scarabeo 500” nei giorni immediatamente precedenti l’omicidio era stato nella disponibilità di Massimiliano D’Elia».
Secondo i giudici della Corte d’Assise di Cosenza, «i componenti del gruppo “Lanzino-Patitucci”, ai quali il D’Elia si era nel frattempo avvicinato, ed in particolare Roberto Porcaro, approfittando dell’astio personale del D’Elia nei confronti della vittima – risalente all’episodio del 2006 e alle liti successive (compresa quella con il padre del 2009), hanno spinto il D’Elia ad eliminare Giuseppe Ruffolo, soggetto che, all’epoca, probabilmente unitamente al padre, svolgeva attività di usura senza l’autorizzazione della cosca e senza far confluire parte dei proventi illeciti nella “bacinella” comune; circostanza che trova riscontro anche nella tempestiva della vendetta, consumata a distanza di tempo, che si giustifica proprio con il conforto della criminalità organizzata e nel concorrente interesse (economico) di quest’ultima alla consumazione del delitto».
Per la Corte d’Assise di Cosenza, dunque, Massimiliano D’Elia, uccidendo Giuseppe Ruffolo, avrebbe agevolato la consorteria ‘ndranghetistica retta in quel periodo da Ettore Lanzino e Francesco Patitucci. La difesa dell’imputato è al lavoro per presentare ricorso presso la Corte d’Assise d’appello di Catanzaro.