Caso Bergamini, tutto quello che c’è da sapere sul camionista
Mente o dice il vero quando afferma che prima di essere investito il calciatore era vivo e in posizione eretta? Ecco chi è Raffaele Pisano da Rosarno
Lo ha giurato sulle sacre scritture: un attimo prima di essere investito sulla Ss 106, il 18 novembre del 1989, Donato Bergamini era regolarmente in piedi e non già disteso sull’asfalto. «Quello che vi sto dicendo è Vangelo di Dio» ha garantito Raffaele Pisano nel suo italiano semplice e stentato. Mente o dice il vero? La soluzione del caso, trentatré anni dopo, passa dalla risposta a questa domanda. Vediamo, dunque, cosa sappiamo sul conto del camionista di Rosarno e qual è la successione degli eventi che, nell’arco di undici anni, lo hanno portato a essere prima indagato per favoreggiamento e poi per concorso nell’omicidio volontario del calciatore del Cosenza, salvo assumere infine lo status di testimone semplice nella stessa vicenda giudiziaria. Senza tralasciare il processo per omicidio colposo da lui affrontato nel 1991 e conclusosi con la sua assoluzione.
Uno che passa da lì per caso
Pisano ha un ruolo centrale nell’inchiesta che l’allora procuratore Franco Giacomantonio riapre nel 2011 sulla scorta di un dossier presentato dall’avvocato Eugenio Gallerani per conto della famiglia Bergamini. Il sospetto iniziale è che anch’egli sia partecipe della cospirazione che porta alla morte del calciatore. Un omicidio mascherato da suicidio, messinscena alla quale proprio lui avrebbe contribuito sormontando volontariamente con il suo camion un Denis già cadavere o in fin di vita. Le indagini portano poi a escludere questa eventualità. Le foto dell’epoca, ingrandite dal Ris di Messina, dimostrano che nel momento fatale l’autista aziona il freno dell’automezzo, lasciando una strisciata sull’asfalto di cinque o sei metri. Non può, dunque, essersi accostato al corpo partendo da fermo, come invece si ipotizzava in un primo momento. Un altro automobilista di passaggio, Raffaele Forte, aggiunge di essersi lasciato sorpassare da lui, pochi chilometri prima, e di averne poi notato la frenata brusca e improvvisa al km 401, il luogo della tragedia. Nel 1989 Pisano ha 51 anni, la Internò solo 19, e tra i due, – tema già esplorato fin dall’immediatezza – non emerge alcun punto di contatto. Non si conoscevano prima di quel maledetto giorno, e questo è un dato più che pacifico. Questi elementi, l’uno a riscontro dell’altro, spingono gli inquirenti di allora a ridimensionare il ruolo del rosarnese: quel 18 novembre è solo uno che passa di lì per caso, diretto com’è ai mercati generali di Milano per consegnare un carico di mandarini.
Da complice degli assassini a semplice testimone
Tutto torna in discussione nel 2017, quando il nuovo procuratore Eugenio Facciolla fa ripartire l’inchiesta archiviata due anni prima. Anche in quel caso, però, gli accertamenti ancora più approfonditi eseguiti sul conto del camionista non consentono di modificarne la posizione. Nell’informativa finale si dà atto di come suo cognato Antonio Cimato sia stato ucciso nel 1987 nell’ambito di una guerra tra le cosche della Piana di Gioia di Tauro. E che lo stesso cognome, Pisano, rimanda alla ragione sociale di una famiglia di ‘ndrangheta alleata del clan Pesce. Raffaele è incensurato e non c’è alcun rapporto di parentela tra lui e quei Pisano lì, ma secondo la polizia giudiziaria «è interessante notare» come una figlia del boss omonimo dimori nella stessa via di Rosarno in cui risiede il camionista: lei al civico 59, lui al 68. Nulla di più. Anni prima, il dossier Gallerani introduceva pure un terzo particolare ombroso: il coinvolgimento di suo figlio nell’inchiesta antimafia “Crimine” risalente al 2006. Già all’epoca, però, il gip aveva biasimato tale riferimento, ritenendolo irrilevante nonché «latamente calunnioso». La Procura rinuncia così a perseguire il camionista che nella nuova rappresentazione accusatoria diventa «strumento inconsapevole» della volontà della Internò e dei suoi misteriosi complici. Quest’ultimi, secondo Facciolla, avrebbero prima ucciso Denis con le modalità già note – soffocandolo dopo averlo narcotizzato con una sostanza che non lascia tracce – e poi avrebbero esposto il suo corpo al passaggio di un mezzo in transito per nascondere le prove del delitto. Ma se Pisano è estraneo a questa congiura, perché allora non ammette di aver investito un uomo già morto?
Le minori conseguenze
A metà del 2019, Facciolla e i suoi due agenti della pg del tribunale di Castrovillari arrivano alla conclusione che il camionista menta per «convenienza». Perché affermare che Bergamini era in piedi «avrebbe comportato per lui minori conseguenze rispetto, invece, a quel che si sarebbe verificato qualora avesse riferito la verità, ovvero che il corpo si trovava già per terra». Sul punto, i detective non vanno oltre questo inciso. Di certo c’è che alla fine del processo per omicidio colposo, il pm Maurizio Saso chiederà per Pisano otto mesi di detenzione. In caso di condanna, tra le pene accessorie vi sarebbe stata senza dubbio la revoca o la sospensione della patente. Per lui e la sua famiglia sarebbe stato un brutto colpo, roba da dover dire addio al lavoro di autotrasportatore. Che temesse questo epilogo giudiziario emerge con il 25 maggio del 2018, quando l’ispettore Ornella Quintieri e l’assistente Pasquale Pugliese si presentano a casa sua per operare una perquisizione. In quell’occasione trovano una vecchia cartella con su scritto “Bergamini” al cui interno figurano le pratiche per la separazione dei beni fra lui e sua moglie, formalizzata proprio nel 1991 in prossimità della sentenza. Il camionista si preparava al peggio e pensava così di poter limitare i danni. Quel giorno, i poliziotti redigono anche un’annotazione di servizio in cui sono riportate le dichiarazioni di sua moglie. La donna spiega loro che il 18 novembre del 1989 era ricoverata in una clinica di Cinquefrondi, e per starle vicino suo marito aveva deciso di non partire per Milano. Era stata lei stessa, però, a convincerlo a non annullare quel viaggio di lavoro: avevano bisogno di quei soldi, altrimenti non avrebbero saputo come sfamare i loro tre figli. Le minori conseguenze stanno tutte qui.
Cosa aveva da perdere
Del resto, a giocare un ruolo decisivo nella sua incriminazione per omicidio colposo era stata proprio la posizione del corpo del calciatore. Non a caso, nella sua esposizione iniziale il pubblico ministero gli contesta di non aver fatto il possibile per evitare di investire il pedone da lui avvistato con largo anticipo anche perché «in posizione eretta». Il magistrato si esprime così: «In posizione eretta», ma nemmeno in quel momento a Pisano si accende la lampadina. Non dice «Fermi tutti, era a terra. Io non c’entro». Non cambia versione nemmeno davanti a una richiesta di condanna, e quando da imputato si sottopone all’esame in aula, ribadisce ciò che aveva detto in precedenza ai carabinieri: che Denis «è andato giù come un fulmine», che forse lo ha colpito «alla spalla sinistra» e che lui non ha «potuto fare nulla per salvarlo». Il contegno da lui avuto nelle fasi successive alla tragedia è descritto da almeno due testimoni. Mario Panunzio è il primo ad arrivare sul posto a bordo della sua Ritmo con moglie incinta e suocera al seguito, quando ancora non si sono materializzati neanche i carabinieri. Sono presenti solo la ragazza e Pisano, e l’automobilista li descrive entrambi in stato di shock e disperazione: «Tanti anni sulla strada – sente dire al camionista – e questo ragazzo proprio sotto alle mie ruote doveva finire?». Salvatore De Paola è uno dei barellieri dell’ospedale di Trebisacce che circa un’ora dopo va sulla Ss 106 a recuperare il corpo di Bergamini. Nota Pisano che passeggia nervosamente sulla strada e gli dice: «Poveretto questo ragazzo». La reazione è risentita: «Poveretto io, mi ha rovinato la vita». Sua moglie ricorda che, dopo la tragedia, per diverse notti si svegliava di soprassalto, ancora scosso per l’accaduto. Investire un uomo già morto avrebbe dovuto quantomeno metterlo al riparo da scrupoli e sensi di colpa.
L’ultimo confronto
A cosa rimandano allora le contraddizioni – o contrasti che dir si voglia – emerse durante la sua testimonianza di giovedì scorso? Riguardo al momento fatale dell’investimento, ha giocato a tombola con i metri percorsi dal suo camion prima di riuscire ad arrestarne la marcia. Ha poi aggiunto un particolare inedito sulle parole udite a caldo dalla Internò, infine ha introdotto un presunto controllo eseguito dai carabinieri sul suo camion prima della tragedia. Con lui il presidente della Corte d’assise è stato duro. Mezzo sordo, con un vocabolario limitatissimo, il diretto interessato faticava a capire le domande che gli venivano poste in aula. Poi, dopo una «pausa tecnica» da lei stessa invocata, Paola Lucente ha cambiato registro. Ha preso a rivolgersi a lui con il tu, per migliorare la comprensione, ed è quasi tornata al tema del vecchio processo, quello del 1991: «Ma se lo hai visto che stava lì sulla piazzola – gli ha detto riferendosi a Bergamini – come hai fatto a non fermarti in tempo, perché non sei riuscito a evitarlo?». Il camionista lo ha ribadito per l’ennesima volta, l’ultima: «Ero lì a tre o quattro metri quando si è lanciato, non ho potuto fare niente». E poi giù con lo «shkanto» provato subito dopo, quando «non riuscivo neanche ad aprire lo sportello», con il rumore dell’impatto tra il camion e il corpo «che me lo sento ancora qui dentro». E il suono sordo dei colpetti che si dà in testa a pugno chiuso – bum bum bum – che riecheggia in aula. Nel silenzio.