Il pentito Franco Bruzzese sarebbe mosso da risentimento quando accusa Luigi Berlingieri di aver preso parte alla spedizione assassina contro Luciano Martello. «Voleva uccidermi» ha dichiarato lo stesso Berlingieri oggi durante il suo esame da imputato, l’ultimo rimasto, nel processo che tenta di far luce sull’uccisione del boss di Fuscaldo risalente al 12 luglio del 2003. Un delitto che, per come ricostruito dalla Dda, matura nel seno della cosca Serpa di Paola, all’epoca impegnata in un conflitto di mafia contro il gruppo nemico confinante. La firma sull’agguato, teso all’uscita di un ristorante sulla Statale 18, la appongono però esponenti del clan degli zingari e della famiglia Bruni alias “Bella Bella” di Cosenza, alleati dei Serpa.

Un disegno da cui Berlingieri si è sempre tirato fuori e oggi, in aula, ha riproposto il tema della sua innocenza, puntando il dito contro uno dei suoi grandi accusatori. «Ce l’ha con me dal 2003, tant’è che da allora mi sono sempre guardato la mano nel timore di subire qualche attentato. Poi, quando lui e il fratello Giovanni Abruzzese sono stati arrestati per le rapine ai portavalori, mi sono tranquillizzato». Che i due volessero eliminarlo, trova riscontro in quanto dichiarato in passato da un altro collaboratore, Luciano Impieri, che durante il processo ha ricordato come tra il 2010 e il 2011, dal carcere, Bruzzese contestasse alla famiglia Bruni «di non averlo ancora assassinato». Le ragioni di tale astio, a detta di Impieri, riposerebbero nella diffidenza del futuro collaboratore che vedeva in Berlingieri un «delatore» o un potenziale pentito.

Sentito in precedenza sul punto, Bruzzese ha minimizzato: «Non c’erano buoni rapporti» ha tagliato corto, riconducendo il suo malanimo allo scarso contributo che Berlingieri, a suo dire, apportava all’organizzazione.  «Se ne andava spesso a Milano, si faceva i fatti suoi». Né l’uno e né l’altro secondo il diretto interessato, che oggi in aula ha indicato una pista squisitamente privata per spiegare l’odio nutrito da Berlingieri nei suoi riguardi.

L’altro tema dell’udienza era quello degli alias con cui veniva appellato l’imputato. Quello caldo è Angioletto. Gennaro Bruni, un altro pentito, sostiene che, nel giorno dell’agguato, così si rivolgessero a lui gli altri membri del commando, quest’ultimi già giudicati nell’ambito del maxiprocesso “Tela del Ragno”. U cinese è invece il nom de crime rievocato dalla sua ex compagna, anche lei oggi testimone del processo, e a tali soprannomi se ne aggiungono poi altri mutuati dalle vecchie informative di polizia: U giapponese e Faccia di ghiaccio. Anche su questo argomento, però, da Berlingieri sono arrivate solo smentite fra le più secche: «Non avevo alcun soprannome – ha affermato – mi ha sempre dato fastidio averne uno. Quando facevo le rapine ero semplicemente Luigi o Giggi Berlingieri».

Il suo esame da imputato ha chiuso di fatto il dibattimento. Alla ripresa dei lavori, in programma il prossimo 18 novembre, sarà già tempo di discussioni in aula: prima la requisitoria del pm Anna Chiara Reale e poi l’arringa dell’avvocato difensore Nicola Rendace. A quel punto, non resterà che attendere la decisione dei giudici. E ventuno anni dopo la morte di Luciano Martello, sarà solo una sentenza di primo grado.