E, dunque, chi?
La condanna di Isabella Internò a 16 anni per l'omicidio di Denis Bergamini non è solo un punto di arrivo giudiziario. Ma di partenza. Forse proprio a cominciare dalle dichiarazioni spontanee rese dall’imputata prima della sentenza
Era l’autunno del 2001, quando a Cosenza atterrò una specie di macigno. Non avevo ancora vent’anni. Carlo Petrini veniva dal successo clamoroso di Nel fango del dio pallone, ritratto impietoso del calcio tra partite accomodate e farmaci proibiti. La sua seconda fatica letteraria era dedicata al caso di Denis Bergamini. E quella lettura, lo ricordo bene, mi lasciò insonne.
I fatti di Roseto Capo Spulico erano caduti quasi nel dimenticatoio collettivo. Bergamini era un volto eternamente biondo e sorridente nelle foto, il suo nome legato alla curva sud e ai cori ultrà cantati più per non dimenticare che a reclamare una riapertura del caso. Se è vero che le ipotesi sviluppate in quel libro si sono poi dimostrate inattendibili, lo è altrettanto che Il calciatore suicidato ebbe il merito di riaccendere i riflettori su quella vicenda. Ho avuto la fortuna di incontrare Petrini tempo dopo, per lavoro, prima della sua morte nel 2012. Parlammo anche di Bergamini. Aveva cambiato idea: alle piste, che lo avevano portato a ipotizzare scenari di calcioscommesse e droga, non credeva più nemmeno lui.
Perdonate se, almeno per questa volta, Minamò svicola dalla prossima sfida col Sudtirol, ma vi confesso che questo pezzo di Sinead O’Connor, che accompagna il finale di Nel nome del padre, ha scandito l’attesa della sentenza Bergamini come poche altre vigilie. Non trovo mai nulla da festeggiare quando tintinnano le manette o si serrano le chiavi di una gattabuia, ma in questa storia c’era davvero molto altro. Qualcosa che esulava dal diritto degli Azzeccagarbugli, ma che nel diritto vedeva pure l’unico strumento possibile per la ricerca di verità e giustizia. Un allineamento che, dalla strage di Viareggio in su, ho visto franare coi miei occhi più di una volta.
Secondo alcuni, l’opinione pubblica aveva già condannato Isabella Internò. E dunque questo sarebbe stato un processo viziato da un clima ostile. Chi lo sostiene si accolla un’accusa pesante: dubitare della terzietà dei giudici, chiamati a valutare prove e ad applicare la legge, non a fare i Robespierre. A riprova di questo, esistono decine e decine di casi au contraire: condannati sui media, ma assolti nelle aule (pensate solo al delitto Kercher a Perugia). Serrare le fila del silenzio attorno all’imputata, convinti che sarebbe bastato a provarne l’innocenza, è stata una precisa strategia della difesa. E si è rivelata sbagliata.
Un altro suo tassello è stato quello di raccontare un processo figlio di un pregiudizio culturale: la gente del Nord che viene a raccontarci quanto la gente del Sud sia brutta, cattiva, feroce fino al delitto d’onore. In questo senso, l’eventuale assoluzione di Isabella Internò sarebbe stata una forma di rivalsa. Non si sa, tuttavia, contro chi, visto che è stata proprio la gente del Sud a reclamare per prima giustizia. Anche sull’onore, poi, c’è da obiettare. In aula è stato evocato il caso Tortora, una specie di Detenuto in attesa di giudizio. In realtà, la sentenza ci restituisce un altro monumentale Alberto Sordi: quello di Un borghese piccolo piccolo.
E così il processo si è trasformato. Non è stato un giudizio sulla colpevolezza di Isabella Internò, ma sulle prove sufficienti per dimostrare l’omicidio. La morte di Denis Bergamini nasce come suicidio perché così viene raccontata dall’unica (o quasi) testimone presente a Roseto Capo Spulico quel 18 novembre 1989. Nel momento in cui la verità processuale, anche a distanza di anni, si allinea a quella fattuale, il risultato è che la testimone è compromessa. Si colloca, cioè, da una parte opposta rispetto alla realtà, con buona pace di chi alza il tiro della difesa vaneggiando di fuffa e spreco di denaro pubblico a proposito dei prossimi gradi di giudizio.
La difesa di Isabella Internò ha tentato, fino all’ultimo, di riportare indietro le lancette dell’orologio. Soprattutto, ha scelto di far passare l’omicidio come teorema. Forse era obbligata a farlo. Eppure, quelle dichiarazioni spontanee (Io sono innocente, non ho commesso nulla, lo giuro davanti a Dio, il mio unico testimone) rese un attimo prima che la corte d’Assise si ritirasse in camera di consiglio, potrebbero aprire a qualcosa di nuovo. Misurate probabilmente al millimetro, per la prima volta in 35 anni, non hanno affermato la tesi del suicidio (io sono innocente si dice rispetto a un omicidio). Non ho commesso nulla, è stato detto: e, dunque, chi?
Sono in molti a sostenere, con una buona dose di cinismo, che quella di martedì è stata solo la sentenza di primo grado. A sottintendere che la condanna, la successiva trasmissione degli atti alla Procura e la possibile iscrizione di nuovi indagati saranno trasformati dai futuri gradi di giudizio in una vittoria di Pirro. Conosco abbastanza i meccanismi della giustizia per sapere che tutto questo è ovviamente possibile. Ma è altrettanto vero che, fino all’altro ieri, la parola omicidio sulla vicenda Bergamini non era mai stata scritta in tribunale. E questo è un esito da battaglia di Maratona: in Italia esistono casi anche più controversi, come quello di David Rossi a Siena, che in un’aula di giustizia non sono mai nemmeno approdati.
Chi sostiene di credere nel diritto non dovrebbe farlo solo a corrente alternata, ma accettare il processo e tutte le sue conseguenze. Da ora in avanti l’omicidio mascherato da suicidio non è una tesi di parte, ma un punto di partenza giudiziario. A essere ridotto a teorema, adesso, è il suicidio. Starà alla difesa decidere se continuare a sostenerlo a protezione dell’imputata o cambiare strategia. Dal 1° ottobre, anche la giustizia non è più chiamata a chiedersi com’è morto? La domanda, adesso o forse da sempre, è: chi ha ucciso Denis Bergamini?