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      C'era una volta a Cosenza, storie d'amore e di evasione a Colle Triglio

      Negli anni '80 la guerra di mafia mette a nudo l'inadeguatezza del vecchio carcere cittadino, ma i segnali si erano manifestati già nei decenni precedenti
      Marco Cribari
      9 luglio 202511:50
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      C'era una volta a Cosenza, storie d'amore e di evasione a Colle Triglio

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      C'era una volta a Cosenza, storie d'amore e di evasione a Colle Triglio

      Uno dei luoghi più belli e suggestivi della città, ma anche uno fra i più insicuri. Palazzo Arnone, ubicato in cima a colle Triglio, è stato fino alla fine del 1982 carcere cittadino e, fino a un paio di decenni prima, anche sede del tribunale. È un ex convento la cui costruzione risale al 1600, del tutto inadeguato all’utilizzo che se n’è fatto per anni. Non a caso, già intorno al 1952 era previsto il trasloco di personale e popolazione detenuta nel nuovo penitenziario di via Popilia, cosa che avverrà con trent’anni di ritardo sulla tabella di marcia. Cose che accadevano all’epoca. E che accadono ancora oggi.

      I limiti strutturali dell’edificio sono pure troppo evidenti, con le celle che affacciano sulla strada e danno così la possibilità ai reclusi di comunicare agevolmente con il mondo esterno. E non solo. Pistole e coltelli entrano ed escono dall’edificio con facilità disarmante, polizia penitenziaria e magistratura di sorveglianza dichiarano apertamente la propria impotenza rispetto allo strapotere interno dei boss, tutti nodi che verranno al pettine all’inizio degli Ottanta, quando in città infuria la guerra di mafia. E anche il vecchio carcere, suo malgrado, diventa campo di battaglia con agguati e sparatorie a cadenza quasi settimanale.

      Non si tratterà di un epilogo inatteso, semmai annunciato. Segnali della tempesta imminente si erano manifestati anche nei decenni precedenti: tentativi di evasione per lo più, episodi incruenti (o quasi) e finanche ammantati di un certo romanticismo criminale. Due, in particolare, quelli più rappresentativi. C’era una volta a Colle Triglio… 

      La Corte si ritira e Palumbo se ne va

      Quando la ‘ndrangheta a Cosenza è un’ombra ancora lontana, Mario Palumbo è signore di un feudo ideale che dal Vallone di Rovito si spinge fino a Casali, passando per lo Spirito Santo e il rione Massa. Oltre quel confine, c’è solo il West. I ragazzi lo tengono così. Un giovanissimo Alfredo Morelli, gli altrettanto giovani Stefano e Pino Bartolomeo, crescono con lui e sotto di lui, stella polare per adolescenti inebriati da fantasie rusticane. Palumbo stimola i loro sogni, ma al tempo stesso tiene a bada quelle teste calde, nessuno immagina ancora i guai che quella generazione, libera dal suo ascendente, combinerà negli anni a venire al prossimo. E non ultima, a sé stessa.

      L’ammirazione che provano per quell’uomo, affonda le radici del passato. Fa leva su un episodio che risale agli anni Sessanta. All’epoca Mario è ospite a colle Triglio dove oltre al carcere è allocato il tribunale. I detenuti salgono al piano di sopra per affrontare i processi e poi, a udienza ultimata, tornano a quello di sotto nelle rispettive celle. È proprio durante uno di questi camminamenti che esplode la sua festa.

      Il processo che lo riguarda si è appena concluso, i giudici hanno aggiornato i lavori e hanno abbandonato l’aula, così due guardie di pubblica sicurezza, una da un lato e una dall’altro, riportano dietro le sbarre l’imputato con gli schiavettoni ai polsi. È sulle scale che comincia la leggenda. Una spallata a destra, una bottarella a sinistra, e Palumbo si libera dalla morsa. È libero di correre. Libero di sognare. Sembra un gesto improvvisato, frutto dell’ispirazione di un momento, ma non è così.  

      Il portone d’ingresso è spalancato, perché a Colle Triglio succede anche questo. Una Fiat 600 se ne sta lì in attesa, con il motore acceso. È tutto organizzato. Palumbo salta nell’abitacolo con un balzo felino e un suo amico alla guida fila via a tutto gas. Nel Vallone di Rovito, un terzo complice, novello fabbro, sega via le manette e gli restituisce una libertà che si rivelerà però effimera. Lo acciuffano poche ore dopo per riportarlo a Colle Triglio, ma quell’evasione farà comunque epoca, tanto da ispirare i poeti. La scritta che, pochi giorni più tardi, appare su un muro di via XXIV maggio, vuole essere celebrativa, ma diventerà proverbiale: «La Corte si ritira… e Palumbo se ne va». 

      Quel sabato di un giorno da cani

      La notte del 20 febbraio del 1971 le camionette di polizia e carabinieri circondano il carcere di Colle Triglio. «Arrendetevi» intima un poliziotto al megafono, ma il suo è un tentativo velleitario. Quel sabato di un giorno da cani è in corso una trattativa surreale: due detenuti, il cosentino Antonio C. e Matteo C., originario di Cutro, tengono sotto scacco l’intero istituto penitenziario. Fino a poco prima sono in cella insieme e, non si sa come, hanno con loro un cappello di poliziotto. Lo mettono in bella vista sul tavolino della cella finché due guardie penitenziarie notano quell’insolito accessorio dallo spioncino e decidono di entrare in cella per capirne di più.

      L’esca funziona. Quei detenuti, incredibile a dirsi, sono entrambi armati. E così, appena i malcapitati secondini aprono il portoncino, quei due aprono il fuoco all’unisono. Non li uccidono, li feriscono alle gambe. E poi corrono verso l’uscita, perché quello è un principio di evasione. Un collega dei feriti sbarra prontamente il cancello d’ingresso e così il piano dei fuggitivi cambia in corsa: sotto la minaccia delle armi, sequestrano altri due agenti. E ora sono lì, con due ostaggi e un sogno interrotto in più.

      Non sono poi così irragionevoli. Il loro primo atto è quello di rilasciare i due feriti che vengono subito accolti in ambulanza e portati in ospedale. Intorno alle tre di notte, poi, arriva il primo segnale di resa. Antonio C. dice di volerla chiudere lì, ma quando giunge al cospetto dei carabinieri, invece di consegnare l’arma, cambia idea all’improvviso. E si mette a sparare all’impazzata. Gli uomini in divisa si mettono al riparo e nessuno di loro rimane ferito, ma il risultato è che la trattativa continua.

      Alle prime luci dell’alba, si arrende Matteo C., ma il cosentino continua a tenere duro. Due dei suoi fratelli tentano di farlo desistere. «Non peggiorare la situazione» gli urla uno dall’esterno, mentre l’altro si arrampica fino alla finestra del carcere per farlo ragionare. Tutto inutile.  La sua pistola è sempre puntata contro gli ostaggi e non è ancora chiaro cosa il diretto interessato pretenda in cambio della loro liberazione. Lo sarà intorno alle dieci del mattino. Antonio C. chiede incontrare la sua amante, una donna di nome Dora, detenuta da tredici mesi a Bari. Il procuratore ci pensa un po’ e dopo un rapido conciliabolo con i capi di polizia e carabinieri, dà il suo via libera. Alle sei del pomeriggio, dopo venti ore d’assedio, Antonio consegna la pistola al suo avvocato. E poi trascorre qualche ora con la sua Dora.          

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