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      'Ndrangheta a Cosenza, i dieci pentiti che hanno fatto la storia

      Da Antonio De Rose a Vincenzo Dedato passando per Franco Pino: ecco i profili dei collaboratori di giustizia più rappresentativi, sia nel bene che nel male
      Marco Cribari
      9 luglio 202511:40
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      'Ndrangheta a Cosenza, i dieci pentiti che hanno fatto la storia

      Con il pentimento di Ivan Barone si ingrossano ulteriormente le schiere già folte dei collaboratori di giustizia cosentini. Un elenco che a partire dal 1993 ha superato abbondantemente le cento unità, a conferma dell’antico adagio di Vincenzo Curato, secondo il quale «A Cosenza ci sono più pentiti che cristiani». Di seguito leggerete i profili di dieci collaboratori, tutti con trascorsi nei clan della città capoluogo e scelti non in ragione del contributo investigativo da loro offerto fin qui alle Procure calabresi, ma in base alla loro potenziale rappresentatività, sia nel bene che nel male. Ognuno di loro ha una storia speciale da raccontare. Ecco quelli che abbiamo selezionato.

      1. Antonio De Rose – L’uomo del blitz (1986)

      È il primo a saltare il fosso a febbraio del 1986, in un’epoca in cui manca ancora una legge sui pentiti. Affiliato al clan Pino-Sena, vede i suoi amici Michele Lorenzo, Marcello Gigliotti e Francesco Lenti, uccisi in rapida successione da fuoco amico e teme di essere il prossimo a cadere. Si pente perché mosso da questa paura e, un mese dopo, le sue confessioni innescano il primo e storico maxiblitz (195 arresti) contro le cosche cosentine. Agli investigatori, De Rose svela gli organigrammi delle due cosche cittadine e racconta – con diverse imprecisioni – i particolari di decine di omicidi di cui si sono rese responsabili. L’inchiesta si risolve in un’archiviazione collettiva che in seguito ispirerà teorie complottiste secondo a cui tale epilogo concorsero i soliti poteri forti, animati dalla volontà di far passare Cosenza «come un’isola felice», una città in cui «non esiste la mafia». Molto più semplicemente, le dichiarazioni del protopentito erano insufficienti per imbastire un processo poiché isolate e prive di riscontri. In seguito, l’ex boss Franco Pino introdurrà il sospetto che carabinieri ci fossero andati giù duro con lui, a suon di botte, teleguidando le sue confessioni.

      Antonio De Rose e Roberto Pagano

      2) Roberto Pagano – Fratelli nella notte (1993)

      Se De Rose è il primo fuori concorso, a lui va certamente il primato sia in termini di tempo che di influenza. Roberto Pagano, infatti, sarà il neutrone in grado di scindere l’atomo. Figlio di bidelli, famiglia onesta e laboriosa ma con una croce da portare, anzi due: lui e suo fratello Francesco, folgorati entrambi sulla via oscura di Mariano Muglia. Gli anni Ottanta sono appena cominciati: Roberto sta con il gruppo Perna e fin da giovane si dedica alle rapine e allo spaccio. Francesco, invece, va con Pino e diventa uno dei sicari più freddi e spietati in circolazione. In città infuria la guerra di mafia e, seppur posizionati su fronti contrapposti, i due fratelli sopravvivono coprendosi le spalle a vicenda. I problemi cominciano quando scoppia la pace. Roberto cade in disgrazia, lo accusano di un omicidio scabroso e poi di essere tossicodipendente, dunque inaffidabile. Il compito di ucciderlo è affidato a suo fratello, che però si ribella. E per questo pagherà con la vita. Roberto Pagano, però, riesce a sfuggire alla morte. Avvia la sua collaborazione con la giustizia nel 1993, imitato poco dopo dai fratelli Notargiacomo. Grazie alle loro confessioni vede la luce l’inchiesta “Garden” con relativa catena di pentimenti. La bomba atomica è scoppiata, ma il bottone l’ha schiacciato lui. (clicca avanti per proseguire nella lettura)

      3. Nicola Notargiacomo – Il guerriero (1993)

      Lo chiamavano “Il guerriero” e il crimine per lui era una scelta soprattutto estetica «A dodici anni ero già in grado di distinguere i revolver dalle semiautomatiche». Diventato adulto, Nicola Notargiacomo imparerà le regole di ’ndrangheta così bene da diventare un “affavellato”, istruendo i novizi ai rituali dei tre cavalieri spagnoli. In veste di pentito, ricorderà così i suoi anni ruggenti: «La malavita mi attraeva dal punto di vista del protagonismo. Io non ho mai avuto certe tendenze, però all’epoca l’uomo d’ambiente era una moda, era qualcosa che attraeva».  Il salto di qualità lo fa con l’omicidio Cosmai e la successiva catena di eventi porta alla nascita del gruppo autonomo Bartolomeo-Notargiacomo che muove guerra alla casa madre. «Pranno disse: i Notargiacomo sarebbero capaci di farti la pelle strisciandoti alle spalle vestiti da donna». Non cade nel tranello della “finta pace”, a differenza dei Bartolomeo, ma da quel giorno ha inizio per lui una vita da fuggiasco. E quando si decide a voltare le spalle al crimine, la sua rinuncia è anzitutto culturale: «Mi sono lasciato attrarre anch’io dal mistero, probabilmente, della malavita stessa». Il manifesto generazionale di un’epoca.

      Nicola Notargiacomo e Franco Pino

      4. Franco Pino – Pensiero e azione (1995)

      «Ogni giorno mi svegliavo alle sei del mattino per ascoltare il giornale radio». Un dettaglio di quotidianità, buttato lì senza pensarci durante una delle sue tante audizioni in tribunale. Un particolare, però, rivelatorio. Nelle sue tante vite, infatti, Franco Pino ha mantenuto immutata solo un’esigenza: quella di essere sempre un passo avanti agli altri. Lo è stato da boss, lo sarà anche da collaboratore di giustizia. L’unico autorizzato a sedere ai tavoli di mafia che contano e di dialogare da pari a pari con le famiglie reggine e vibonesi. Finanche con i corleonesi. Il primo, a tutt’oggi inimitato, a sprovincializzare la criminalità cosentina, arrivando a mettere le mani su appalti monstre, anche di livello internazionale come quello dell’aeroporto di Bucarest. Il suo segreto? Sveglia alle sei. Giocare d’anticipo, una mossa che gli riuscirà anche nell’ora per lui più sofferta: quella del cambio di pelle. La fascinazione oscura che ha esercitato su un’intera generazione è ben riassunta nelle parole pronunciate in aula da Gianfranco Ruà durante un’udienza del processo “Garden”: «Per noi era un idolo, seguivamo tutto quello che diceva, gli ho voluto bene forse più di un fratello. Era un’infatuazione, lui era come lo portavano i giornali, insomma, uno si innamorava di lui, delle sue gesta, delle sue cose. E gli siamo andati dietro… gli sono andato dietro». (clicca avanti per proseguire nella lettura)

      5. Aldo Acri – Lacrime d’assassino

      Sulla carta si presentava come pacifico e innocuo gommista di via Popilia, ma nella realtà Aldo Acri era un assassino nato. Sono almeno una ventina gli omicidi consumati negli anni Ottanta che portano la sua firma, tutti eseguiti per conto del clan Perna-Pranno. Se c’era qualcuno da stendere, chiamavano lui: Acri andava, portava a termine l’incarico e poi riprendeva il lavoro in officina, come se nulla fosse. Un autentico ragioniere del crimine, freddo e spietato. La svolta esistenziale avviene durante una seduta del processo “Garden”. In aula, Acri dichiara di voler collaborare con la giustizia e tra le lacrime, udienza dopo udienza, comincia a snocciolare il rosario di piombo da lui collezionato nel tempo. La sua collaborazione subisce un breve stop all’inizio del 2000, ma poi riprende regolarmente, sempre nel segno del ravvedimento. Mentre ricostruisce un’azione di fuoco che lo ha visto protagonista, esplode in un pianto a dirotto e, dopo una breve pausa, tra i singhiozzi dice una cosa inaudita: «Per quello che ho fatto meriterei la sedia elettrica». Ancora oggi, si parla di lui come l’unico vero pentito della ‘ndrangheta cosentina. Gli altri collaborano solamente.

      Francesco Bevilacqua e Aldo Acri

      6. Francesco Bevilacqua – Oltre l’inaudito (2001)

      L’origine del suo soprannome, Franchino ’i Mafarda, la illustra lui stesso durante una delle sue prime deposizioni da collaboratore di giustizia: «Perché questo è il nome di mia madre». È una delle sue poche concessioni all’emotività. Un mezzo sorriso e poi Francesco Bevilacqua, già capobastone del clan dei nomadi, riprende i suoi racconti dell’orrore. Del romanzo criminale cosentino, lui è uno dei protagonisti indiscussi, almeno dal 1998 al 2001, data del suo pentimento. Un triennio intenso che segna l’ingresso della sua gente nell’onorata società, la gestione del narcotraffico e il rapporto problematico con gli “italiani”, ma anche con i cassanesi della loro stessa etnia. Tre anni durante i quali anche lui si macchia di omicidi efferati ai quali fa seguito la decisione di cambiar vita. È lui il primo ad aprire un varco in una cosca che sembrava impenetrabile. Crea un precedente fino ad allora neanche ipotizzabile. A lui si associa quasi subito anche sua sorella Anna Tonia. E negli anni a venire, altri ancora si inseriranno nello stesso solco. (clicca avanti per proseguire nella lettura)

      7. Carmine Cristini – Il professore (2006)

      Si fa chiamare “Il professore” in ragione delle sue malcelate simpatie cutoliane, ma già al primo arresto comprende che per lui, forse, non è aria. E così, abbandona in tutta fretta i sogni di gloria criminale, abbracciando un futuro da “Buscetta”. Comunque sia, l’ex rapinatore Carmine Cristini ha pensato sempre in grande. Comincia a collaborare a settembre del 2006, quand’è poco più che ventenne, con un biglietto da visita niente male: fa ritrovare agli investigatori alcune armi da guerra di proprietà della malavita di San Lucido. Pochi mesi più tardi, però, si mette in testa di svaligiare una banca di Pescara. Colpo riuscito in verità, ma durante la fuga perde il telefonino che sarà poi ritrovato dai carabinieri. Torna in carcere e da allora tradirà le attese da pentito utile alla causa della Legge così come aveva tradito quelle da enfant prodige della malavita locale. Nel 2014, poi, metterà il sigillo alla sua personale discesa negli inferi, macchiandosi dell’omicidio di Stanislao Sicilia. Da allora, non è mai più salito in cattedra. 

      Carmine Cristini e Vincenzo Dedato

      8. Vincenzo Dedato – La svolta mistica (2007)

      «Sto portando a termine un percorso spirituale che mi ha fatto diventare testimone di Geova». Così, durante uno dei primi processi nelle nuove vesti da pentito, Vincenzo Dedato motiva il suo pentimento avvenuto a febbraio del 2007, fresco di libertà dopo cinque anni trascorsi al 41bis. Il suo primo contatto con il crimine risale al 1976, periodo in cui fa da autista al padrino Antonio Sena. Si distingue in qualche rapina, ma poi decide di distaccarsi dalle gang, in quegli anni impegnate a combattersi in una sanguinosa faida. Dedato non si lascia coinvolgere. Apre un pantalonificio in viale della Repubblica e si dedica a questa attività per i successivi vent’anni, ma nel 1998 il nuovo crimine organizzato cosentino si ricorda di lui. E gli consegna lo scettro di “contabile”. «Ero come un caposocietà – ricorderà in seguito – anzi, forse con qualche potere in più. Ma guadagnavo quanto un operaio specializzato». C’è stato un tempo in cui ogni porta si schiudeva al suo passaggio. Oggi, invece, con tanto di nuova identità e fede in Geova, gli capiterà spesso di bussare a qualche campanello. Col rischio, però, che più d’uno faccia finta di non essere in casa. (clicca avanti per proseguire nella lettura)

      9. Edyta Kopaczynska – Una donna al comando (2013)

      La sua storia è anche quella di una ragazza timida, che da un centro rurale della Polonia sudorientale arriva in Italia e diventa quasi la reggente di una cosca di ’ndrangheta. Prima di pentirsi, infatti, Edyta Kopaczynska, ha rivestito il prestigioso ruolo di moglie di Michele Bruni, boss del clan “Bella bella”. E nei periodi di detenzione del marito era proprio le a dirigere gli affari del gruppo criminale. Per il pentito Giuliano Serpa «il capo si può dire che era lei e non Michele Bruni». E ancora: «Alla mancanza del marito, era lei che ne faceva le veci con persone che appartenevano al loro gruppo». Un atteggiamento, quello di Edyta, che Serpa definiva «da malandrina», tant’è che per farsi capire da tutti aveva persino imparato a masticare il dialetto cosentino. La morte di Michele (per cause naturali) e quella di suo cognato Luca (ucciso dai vecchi alleati) la trascinano sull’orlo del baratro. Ad attenderla c’è una sorte analoga a quella di Luca o, nella migliore delle ipotesi, la miseria. E così sceglie di collaborare. È la prima donna boss della ‘ndrangheta cosentina a maturare questa decisione.    

      Edyta Kopaczynska e Vincenzo De Rose

      10. Vincenzo De Rose – L’uomo del Sistema (2017)

      Il viaggio tra i pentiti cosentini si conclude con lui, collaboratore di ultimo pelo aggiuntosi all’elenco a partire dal 2017. Da un De Rose all’altro, un modo per chiudere idealmente un cerchio, ma senza per questo sminuirne l’importanza. Vincenzo De Rose, infatti, non è un boss né un gerarca delle consorterie criminali. È un pesce piccolo, uno spacciatore, che però con il suo pentimento ha consentito agli investigatori di fotografare un’attualità. È lui, infatti, uno dei primi a descrivere il nuovo assetto della criminalità locale e il modo in cui la stessa si è riorganizzata a seguito di arresti e defezioni. Ed è a partire dalle sue dichiarazioni che si comincia a ipotizzare l’esistenza di un “sistema” della droga in città, tant’è che su questa scia, si inseriranno poi le confessioni di altri collaboratori di giustizia. Non è un caso, insomma, che i verbali dei suoi interrogatori siano indicizzati in cima alla mole di documenti allegati agli atti dell’ultima inchiesta antimafia, quella culminata nel blitz del primo settembre 2022. Definirla “Operazione De Rose” sarà anche pretenzioso, ma non del tutto errato.

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