La Corte d’Appello di Catanzaro riforma la sentenza del tribunale di Cosenza. All’uomo venivano contestati i seguenti reati: minacce, interruzione di pubblico servizio e porto di oggetti atti a offendere
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La Corte d’Appello di Catanzaro, seconda sezione penale, ha assolto Marco Cino dall’accusa di interruzione di pubblico servizio, minacce aggravate e porto ingiustificato di oggetti atti a offendere. La sentenza, emessa il 23 ottobre 2025, riforma integralmente la decisione del Tribunale di Cosenza del marzo 2024, che aveva condannato l’imputato.
Il collegio, composto dalle magistrate Roberta Carotenuto (presidente), Maria Rosaria Di Girolamo e Giovanna Mastroianni, ha assolto Cino «perché il fatto non sussiste».
Le accuse
Secondo quanto contestato all’epoca dal pubblico ministero Margherita Saccà nel decreto di citazione diretta a giudizio, l’uomo - difeso dall’avvocato Gianpiero Calabrese - si sarebbe recato il 3 marzo 2020 presso l’ufficio Protocollo del Comune di Mendicino, pretendendo di parlare con il sindaco o con il suo vice e chiedendo un risarcimento per presunti danni derivanti da un sinistro stradale causato, a suo dire, dal manto dissestato di una via comunale.
Durante la discussione con due impiegati comunali, avrebbe interrotto la regolare attività d’ufficio. Sempre secondo l’accusa, nel corso dell’intervento di un agente di polizia municipale, l’uomo avrebbe brandito un cacciavite, pronunciando frasi minacciose.
La condanna e il ricorso
Il Tribunale monocratico di Cosenza aveva ritenuto l’imputato colpevole, condannandolo alla pena detentiva e al pagamento delle spese processuali. Contro tale decisione, l’avvocato Calabrese aveva presentato appello, sostenendo che la condotta del suo assistito non integrasse alcun reato, ma fosse frutto di un «equivoco comportamentale privo di reale minaccia o violenza».
Nell’atto di impugnazione la difesa ha ricostruito l’episodio sottolineando come Cino si fosse recato in Comune «unicamente per richiedere informazioni circa una domanda di risarcimento danni già protocollata», e che non vi fosse stata alcuna intenzione di turbare l’attività amministrativa.
Secondo la difesa, l’imputato non avrebbe mai usato il cacciavite per intimidire, ma lo teneva con sé poiché utilizzato abitualmente per lavori meccanici sul proprio motociclo. Inoltre, non sarebbero emerse prove dirette o riscontri oggettivi circa le presunte minacce. Accogliendo integralmente la tesi difensiva, la Corte d’Appello ha annullato la sentenza di primo grado

