I carabinieri frugano nelle sue tasche alla ricerca di un’arma. E’ il 27 aprile del 1981, Pasquale Barone è morto da pochi minuti e, per quegli uomini in divisa lui è solo l’ennesima vittima della guerra di mafia che infuria a Cosenza. La terza in dieci giorni. Sì, ma perché ucciderlo? Con chi se la faceva? Da che parte stava? E soprattutto, perché non era armato? Deve esserci un’arma, doveva averne una anche lui. Per forza. E invece un’arma non c’è. La verità è che Pasquale Barone, 63 anni, con quel conflitto tra bande non c’entra un bel nulla. E’ solo un altro civile trovatosi sulla linea del fuoco. Poteva capitare a chiunque, a via Popilia come a corso Mazzini. Quel giorno accade in via degli Stadi.

Barone, muratore in pensione con un passato da sottoufficiale dell’esercito, ha appena accompagnato a scuola il nipotino di 7 anni. E’ un bimbo orfano di padre a cui lui tiene come un figlio. Dopo averlo affidato alla maestra fa per tornarsene a casa e percorre in discesa una stradina perpendicolare a via degli Stadi, davanti al campo scuola. Non sa che al di là della recinzione, dietro una siepe, sono appostati tre sicari del clan Perna.

Quegli uomini aspettano che davanti a loro passi qualcuno della banda Pino per stenderlo. Hanno l’imbarazzo della scelta, perché da quelle parti abitano Giuseppe Iirillo, Ettore Lanzino, Fiore Bevilacqua e altri ancora. Sanno che, prima o poi, da quella traversa spunterà un nemico, ragion per cui se ne stanno lì, nell’ombra, come cacciatori in attesa della preda. Che intorno alle otto e trenta del mattino si materializza davanti ai loro occhi.

Da lì, infatti, passa l’auto con a bordo proprio Lanzino, che di Barone ha sposato una figlia. E’ solo un dettaglio poiché Pasquale non condivide nulla delle scelte delinquenziali di suo genero. Il bersaglio motorizzato passa davanti a lui, proprio nel momento in cui i killer azionano i grilletti. Imbracciano fucili a canne mozze, caricati a pallettoni che, nelle intenzioni, dovrebbero sfondare vetri e carrozzeria dell’auto che, presuppongono, sia come al solito blindata. La previsione è corretta, ma l’esito si rivela disastroso.
I proiettili rimbalzano sul veicolo senza neanche scalfirlo e la traiettoria più perversa è quella che porta uno di questi pallettoni a perforare la spalla dell’ignaro pensionato. Il proiettile fuoriesce senza ledere organi vitali, ma è destino che quel giorno tutto debba andare storto in via degli Stadi. Barone muore sul colpo a causa dello shock, come stabilirà in seguito il medico legale Vangeli.

In seguito, le persone indicate dai pentiti come i suoi assassini, saranno condannati all’ergastolo in primo grado durante il processo “Garden” e poi assolti in Appello per «mancanza di riscontri individualizzanti». A quel punto, però, le ragioni della sua morte, almeno quelle, sono ben note. E la verità è che una ragione vera non c’è. «Di lui si dice che fosse un brav’uomo» scrive Cristofaro Zuccalà su Gazzetta del Sud all’indomani della sua morte. E non si sbagliava. In tasca, nel suo abito a quadri, aveva tremila lire e un mazzo di carte napoletane.