di Emilia Corea*

Il rapporto tra un paziente e un operatore sanitario è inevitabilmente segnato da un’enorme asimmetria: conoscenze, linguaggio, norme, capacità di orientarsi nel sistema.

Per una persona migrante - spesso senza rete sociale, con un passato traumatico, con documenti incerti o paure legate allo status giuridico - questa asimmetria diventa abissale. In questo contesto, il potere rappresentato da un camice bianco può trasformarsi in abuso: risposte brusche, rifiuti immotivati, omissioni di cure, mancanza di spiegazioni, richieste assurde di documenti non necessari, atteggiamenti paternalistici o apertamente diffidenti.

Sono comportamenti che, nella quotidianità delle strutture, passano inosservati. Ma per chi li subisce hanno un peso enorme: diventano barriere invisibili, capaci di impedire l’accesso a diritti essenziali. Omissioni che diventano violenza istituzionale. Omettere una cura, rifiutare una certificazione dovuta, rinviare senza motivo, liquidare un problema complesso con superficialità: sono azioni che, sommate, costituiscono una forma di violenza istituzionale. Nel caso di donne sopravvissute a mutilazioni genitali femminili, questa omissione equivale a un’ulteriore ferita: non solo devono convivere con le conseguenze fisiche e psicologiche della violenza subita, ma vengono anche costrette a dimostrarla, a giustificarla, a superare ostacoli che non dovrebbero esistere. E ancor peggio è quando non riescono a dimostrarla perché chi per dovere istituzionale dovrebbe supportarle si rifiuta di farlo.

Da oltre un quarto di secolo mi occupo prevalentemente di orientamento sanitario nei confronti dei migranti presenti nella città di Cosenza e troppe volte ho assistito a situazioni di prevaricazione: discriminazione nei servizi pubblici, trattamenti ingiusti all’interno delle strutture sanitarie, abusi di potere da parte di chi dovrebbe invece proteggere e tutelare. Così tante da esserne nauseata, disgustata, esasperata! Molteplici sono le testimonianze di migranti che ho raccolto, numerose le volte in cui ho personalmente assistito a pratiche discriminatorie nella cura, durante gli anni passati a percorrere i corridoi degli ospedali della provincia, nelle sale di attesa o dentro agli ambulatori medici.

Vite umane che vengono calpestate da chi, invece di essere un punto di riferimento, si trasforma in un ostacolo, in un muro di indifferenza. Indossare un camice bianco non dà automaticamente il diritto di esercitare potere e superiorità sugli altri, soprattutto quando si tratta di persone vulnerabili come i migranti. Accade così, che all’interno del consultorio della città di Rende un luogo che dovrebbe essere presidio di tutela e ascolto, una donna richiedente protezione internazionale si sia vista rifiutare la certificazione medica delle mutilazioni genitali femminili (MGF) subite nella sua infanzia. Un documento essenziale, richiesto dalla Commissione territoriale per valutare la sua domanda d’asilo, e spesso determinante nel riconoscimento dello status di rifugiata.

La “specialista” incaricata del consultorio ha respinto la richiesta senza fornire motivazioni tecniche adeguate, liquidando la situazione come “non di propria competenza” e adducendo il pretesto che i consultori non possano rilasciare certificati in quanto esclusivamente luoghi di prevenzione. Un atteggiamento che, oltre a suscitare sgomento, solleva interrogativi profondi sul rispetto dei protocolli sanitari e delle responsabilità professionali in materia di violenza di genere. In questa regione, quando una persona migrante entra in una struttura sanitaria, non sempre trova cura: a volte trova un muro. Un muro fatto di sguardi sospettosi, linguaggi tecnici usati come barriere, richieste assurde, rifiuti immotivati. È qui che il camice bianco diventa una divisa di potere, un simbolo che può proteggere o schiacciare. E troppo spesso schiaccia. Perché chi ha il potere di prescrivere, certificare, curare — o non farlo — possiede anche il potere di decidere chi merita ascolto e chi no. E quando davanti c’è una donna migrante, traumatizzata, confusa, quel potere può trasformarsi in abuso.

Alla “specialista” di turno non serve nemmeno urlare, non serve insultare: basta dire “non posso”, “non è competenza mia”! Basta non firmare. Basta non guardare. Oltretutto, appare evidente che la ginecologa in questione non conosca la normativa che riguarda la certificazione degli esiti di mutilazioni genitali femminili, come l’infibulazione, che si trova principalmente nel contesto delle normative sulla tutela delle vittime di violenza e mutilazioni, e nelle linee guida per i servizi sanitari, tra cui i consultori. In particolare, la legge 9 gennaio 2019, n°3, “Disposizioni in materia di tutela delle vittime di mutilazioni genitali femminili e di violenza di genere”, prevede l’obbligo di certificare e documentare le lesioni e gli esiti di mutilazioni genitali femminili anche per fini giudiziari e di tutela delle vittime. L’obbligo, non “la libertà di certificare ma anche no”, come invece la ginecologa del consultorio di Rende si arroga il diritto di fare.

Più precisamente, l’articolo 4 di questa legge stabilisce che: “i servizi sanitari, pubblici e privati accreditati, sono tenuti a certificare gli esiti di mutilazioni genitali femminili e di violenza, anche ai fini dell’assistenza e della tutela delle vittime”. Inoltre, la circolare ministeriale del 2019 fornisce indicazioni operative sulle modalità di certificazione, sottolineando che i professionisti sanitari, tra cui i ginecologi e i consultori devono emettere una certificazione dettagliata degli esiti di MGF. È inaccettabile che, nel 2025, ci siano ancora “professionisti” sanitari che si rifiutano di certificare gli esiti delle mutilazioni genitali e che lo facciano con atteggiamenti discriminatori e intollerabili all’interno delle strutture pubbliche. Questa condotta non rappresenta solo un grave errore professionale, ma un atto di discriminazione che colpisce le donne più vulnerabili e che mina i principi fondamentali di uguaglianza e rispetto sanciti dalle norme internazionali.

Altra dinamica ricorrente, all’interno delle strutture sanitarie della provincia di Cosenza ma in generale in tutti i presidi pubblici, è quella secondo la quale quando una persona migrante si presenta non accompagnata da un operatore, un’associazione o un mediatore culturale, la possibilità di essere ascoltata si riduce drasticamente. Non è raro che richieste legittime vengano rimandate, minimizzate o banalizzate solo perché manca qualcuno “che garantisca”, come se la parola della persona migrante valesse meno. Un atteggiamento che non solo discrimina, ma crea un sistema di accesso alla salute basato sul privilegio della rappresentanza. Da soli, diventano invisibili.

Da soli, diventano sospetti. Da soli, possono essere rimandati indietro con una scusa, una smorfia, un'alzata di spalle. Persone che hanno viaggiato per migliaia di chilometri, sopravvissute a torture, fame, naufragi, e che qui, nel paese in cui speravano di ricominciare, si ritrovano a consumare il proprio dolore, ad esempio, su una sedia di una sala di attesa di un ospedale, per giorni senza che nessuno si preoccupi di verificarne lo stato di salute…come se il dolore avesse una nazionalità e il diritto alla cura fosse una concessione da distribuire discriminandone l’appartenenza geografica. Lo sapeva bene Isaac, affetto da epatocarcinoma allo stadio finale, abbandonato su una barella nel pronto soccorso dell’Ospedale di Cosenza per 9 lunghi giorni.

Lo sapeva bene Hadmol, paralizzato dal collo in giù, al quale i sanitari dimenticavano di cambiare il pannolone per intere giornate perché non c’era nessun familiare a fare la voce grossa e a pretendere che i suoi diritti venissero rispettati. Lo sanno bene tutte quelle donne per le quali il momento in cui varcano la soglia di un ospedale o di un consultorio per avviare un’interruzione volontaria di gravidanza non coincide con l’inizio di un percorso sanitario: somiglia, piuttosto, all’ingresso in un tribunale silenzioso, dove ogni gesto, ogni sguardo e ogni parola pesano come sentenze. E quando una donna si trova di fronte a un sistema intero che le dice “non dovresti essere qui”, la funzione politica è chiara: scoraggiare l’accesso, intimidire, dissuadere.

*Coordinatrice

Equipe Socio-Sanitaria