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Se dovessi scegliere la vera notizia in casa Cosenza degli ultimi sette giorni, non indicherei il 3-1 sul Como ma il rinnovo fino al 2026 di Aldo Florenzi. A meno di una settimana dal prolungamento di Michele Rigione (2024), credo che si tratti di uno dei colpi più importanti battuti dalla società nella nostra storia recente. E che segna, finalmente, una inversione di rotta.
Quando scrivo sorpreso, ci tengo a dirlo, non sono ironico. È un po’ come quando, da ragazzo, gli amici mi definivano pessimista a proposito delle mie relazioni amorose e io ribattevo no, mi limito a fare cronaca. Ecco, faccio cronaca. E mi metto nei panni di un calciatore che firma un nuovo contratto ad un pugno di giornate dall’inizio del campionato – mentre, secondo i parametri del football moderno, avrebbe ogni interesse a tirare la corda fino a primavera per vedere se s’affaccia prima qualcuno. Rigione e Florenzi sono elementi molto diversi: uno è uno stopper esperto, l’altro una mezzala tra le più promettenti della categoria. E fossi stato al posto loro, avrei firmato un nuovo contratto solo in presenza delle seguenti condizioni: certezze presenti (non solo economiche) e progetto futuro.
Voi ribatterete certo che, oggi come oggi, prolunghi un contratto e poi te ne vai a luglio. Come darvi torto? Il punto è che però tanti ne abbiamo visto (da La Mantia a Dermaku) non firmare e poi svincolarsi a parametro zero. Quindi, nell’opzione peggiore (quella di aver negoziato un rinnovo nell’ottica di guadagnare da una futura cessione), perlomeno non saremmo di fronte a una perdita secca.
Ma quel che m’interessa e che penso è che, a parer mio, i vari La Mantia e Dermaku non rinnovarono perché certezze e progetto non c’erano: vabbè, resto, ma per fare cosa? Ricordate del resto quel che accadde con Trinchera: quale atleta sano di mente avrebbe scelto di restare in una società il cui ds dichiara ai quattro venti che questa piazza non ha appeal? Intendiamoci: non è che improvvisamente Cosenza è diventato il Bengodi. Qualcosa però, dall’arrivo di Gemmi in poi, è cambiato. E, come spiega bene Jack Nicholson nei panni di Melvin Udall, quello che ci faceva incazzare è che questa normalità appartenesse agli altri e non a noi.
Vedo pure che questa normalità sta destabilizzando un po’ tutti. Ho molti amici che, dopo la vittoria col Como, sottolineavano le pecche del Cosenza (che ci sono) più dei suoi meriti in campo. Io stesso non ho potuto fare a meno di notare che, un anno fa, pure con la Ternana si vinse 3-1 (e poi sappiamo com’è andata a finire). Lasciare andare le briglie per un tifoso, che spesso è rimasto deluso, è come sognare che una occasionale chiusura si trasformi in una storia seria: è complicato e i cuori fragili hanno paura di andare in frantumi. Tuttavia la vittoria col Como un paio di cose ce le dice.
Numeri alla mano il Cosenza continua a essere una squadra che subisce molto più di quanto crei. Che quasi sempre concede all’avversario il primo quarto d’ora prima di prenderne le misure (e ci sono squadre in questa serie B a cui quindici minuti possono bastare per chiuderle, le partite, o comunque indirizzarle). Eppure soffre meno di quanto subisca (ricordate l’anno scorso le gare contro Benevento e Lecce?). Che razza di cambi sono, abbiamo bofonchiato in molti all’ingresso in campo di Vallocchia e Meroni nella ripresa. Sembrava una resa, un arroccamento alla Braglia (sia sempre lodato) e invece è stato il miglior modo, con gli uomini a disposizione, di ridurre gli spazi tra le linee di fronte a un avversario straordinariamente tecnico dalla mediana in avanti.
Su questo mi ero già espresso: Dionigi è molto più bravo a leggere le partite in corso. Un paio di correttivi dal primo minuto, tuttavia, mi sono parsi azzeccati. La posizione di D’Urso, più vicino alla punta. La scelta di scommettere su Nasti (che mi è piaciuto molto) e quella di insistere su Voca (vi avevo avvisato già ad agosto che rispetto all’anno scorso si trattava di un altro giocatore, il cui lavoro oscuro sarebbe tornato prezioso). Al momento, insomma, il Cosenza è una squadra organizzata, molto ordinata in difesa.
L’anno scorso i gol su palle inattive non li facevamo, li subivamo. E l’ultima azione del primo tempo col Como, quella che porta Brescianini in area di rigore, ci dice che possiamo essere anche veloci a ribaltare l’azione. Resta da capire se e come cambierà tutto questo con l’ingresso stabile in formazione di Calò. Ma questa è una strada attraverso la quale, in un campionato così, ci si può salvare (anche se la prudenza mi impone di sottolineare due volte quel può).
Insomma, è il Como a doversi chiedere perché abbiamo perso, non il Cosenza a domandarsi come siamo riusciti a vincere. D’altro canto, e tornando al bellissimo film sopra citato: come non servono rose rosse e regali costosi per conquistare in amore, così è necessario grande equilibrio (da parte di tutti) in questa stagione. Meno peana, zero salti sul carro del vincitore (e ne vedo già tanti) (con l’inevitabile paradosso di costruirlo, di fatto, quel carro, e dunque di fomentare aspettative), entusiasmo senza voli pindarici. Ma questo, dopo molti anni, è finalmente un Cosenza per il quale non solo è doveroso tifare (come per qualsiasi Cosenza), ma del quale sarebbe giusto cominciare a innamorarsi. Anche se non gioca (ancora) bene e anche quando andrà incontro a passi falsi. Quindi, non ci deluda. E faccia venire anche a noi la voglia di smettere di prendere le pillole.
Tutto questo sarà messo a durissima prova nelle prossime quattro partite. Se dovessimo analizzare le rispettive rose, il Cosenza è nettamente inferiore a Reggina, Genoa, Spal e Frosinone (e in questo il calendario ricorda proprio quello dello scorso anno tra ottobre e novembre, banco di prova su cui il fragile vascello di Zaffaroni andò a schiantarsi). Partirà dunque sfavorito contro la formazione di Inzaghi, rimasto in vetta alla classifica nonostante la sconfitta di Modena: al Braglia però gli amaranto avrebbero meritato, a detta di tutti, almeno il pari. L’aria di derby e la voglia di riscossa getteranno sicuramente benzina sul match del Granillo.
È una partita che si giocherà soprattutto sulle fasce. I nomi di Menez, Santander, Rivas e Fabbian, i gol fatti (14, secondo miglior attacco) e subiti (3, miglior difesa del torneo) non possono oscurare la realtà di una squadra che proprio sulle corsie esterne lavora il maggior numero di palloni e da lì cerca sistematicamente la profondità. Servirà una prestazione molto accorta da parte di Rispoli e Panico e un costante lavoro di rientro da parte di Merola e Brignola (o chi per loro). Dionigi dovrà essere bravo a interrompere più possibile queste loro catene di gioco. Oppure a concederle e conquistare le seconde palle, accorciando con Voca e Brescianini.
Nelle ultime stagioni ci è toccato presentarci al Granillo quasi da vittime sacrificali. Facciamo in modo di uscirne stavolta dicendoci che davvero qualcosa è cambiato.