lunedì,Dicembre 11 2023

Mafia a Rende, contro Principe «solo voci e nessuna prova»

Ecco perché sei mesi fa i giudici hanno assolto lui, Bernaudo, Ruffolo e Gagliardi dalle accuse di concorso esterno e corruzione elettorale

Mafia a Rende, contro Principe «solo voci e nessuna prova»

Non sono emerse prove che il crimine organizzato, e in particolare il clan Lanzino, abbia contribuito alle fortune elettorali di Sandro Principe e inquinato per anni la vita amministrativa del Comune di Rende. E al riguardo, dai collaboratori di giustizia arrivano solo «informazioni de relato». Sono queste, in sintesi, le ragioni per le quali il 25 maggio del 2022, l’ex leader socialista e altri politici a lui vicini come Umberto Bernaudo, Pietro Ruffolo e Giuseppe Gagliardi sono stati assolti dalle accuse di corruzione elettorale e, per quanto concerne i primi tre, dal sospetto di concorso esterno in associazione mafiosa. Ora, a sei mesi dalla pronuncia di quel verdetto, il collegio presieduto da Stefania Antico ne ha reso noto le motivazioni.

Niente ingerenze, solo suggerimenti

In poco più novanta pagine – ma quelle effettive, a conti fatti, sono solo una ventina –  i giudici danno atto di come durante il processo celebratosi nel tribunale di Cosenza, diversi testimoni abbiano sì riferito «di una certa pervasività e predominanza del Principe in ordine alle vicende del Comune di Rende», ma a loro avviso non è emersa alcuna prova «che tale interessamento si sia colorato di profili di illiceità, tantomeno che egli abbia mosso o avallato l’attuazione di atti contrari ai doveri d’ufficio, avvalendosi degli amministratori Bernaudo e Ruffolo».

Le sue «ingerenze» con i sindaci e i dirigenti del Municipio, dunque, non avrebbero mai travalicato i limiti «dei suggerimenti o del diritto di critica che egli trasmetteva nella qualità di amministratore di lungo corso nell’interesse dello sviluppo dell’ente locale». Insomma, secondo i giudici non c’è alcun elemento certo per sostenere che sia lui che altri «abbiano fatto leva sul prestigio e sull’autorevolezza della sua riconosciuta leadership» per stringere «patti corruttivi» con la criminalità. Piuttosto, la lettura che danno a proposito delle ormai famose «ingerenze» è identica a quella che Principe stesso ha illustrato in aula con dichiarazioni spontanee. E cioè che le dinamiche della politica d’oltre Campagnano «lo coinvolgevano particolarmente perché, sotto la propria consiliatura, Rende dismetteva la veste di periferia e diveniva un centro cittadino, luogo di crescita e di aggregamento socio-culturale che sviluppava le proprie potenzialità e ambizioni».

Nessun privilegio per D’Ambrosio

Insomma, testimonianze, dichiarazioni di pentiti e intercettazioni sono state ritenute «inidonee e insufficienti a sostenere l’ipotesi accusatoria». In primo piano c’era l’affidamento del bar Calibri ad Adolfo D’Ambrosio, ovvero il capo della cellula rendese del clan Lanzino. Per la Dda tale circostanza rappresentava la pistola fumante, ma dal dibattimento la Antico – con le colleghe Iole Vigna e Urania Granata a latere – ha tratto convinzioni molto differenti. Anzitutto che «la procedura di gara era di per sé regolamentare e legittima», e poi che Principe non ha mai dato «direttive», esercitato «pressioni o sollecitazioni» in favore di D’Ambrosio la cui mafiosità, peraltro, sarebbe stata acclarata solo nel 2014.

Il collegio reputa infondato anche il sospetto che quest’ultimo godesse «di canali privilegiati» all’interno dell’amministrazione rendese, e ciò a causa «delle lunghe anticamere» che, a fronte della loro insistenza, D’Ambrosio o i suoi familiari erano costretti ad affrontare in Municipio per essere riceviti da Principe, senza però riuscire quasi mai a incontrarlo. Tra le altre cose, le intercettazioni rivelano anche una certa ostilità del viceboss che pare orientato a non dargli il sostegno elettorale.  

Sui boss assunti in Municipio

Anche al capitolo relativo alle assunzioni in Comune, che gli inquirenti ritenevano pilotate dai clan, non sono state associate conferme. Solo smentite. La cooperativa che si reputava «inquinata» – la Rende 2000, poi Rende servizi – era di tipo B, dunque aperta a pregiudicati in una quota che il Municipio aveva rispettato (24 su 197). Fra questi figurava un altro noto alle cronache come Michele Di Puppo, per il quale vale lo stesso discorso di D’Ambrosio: la sua assunzione risale nel 2005, la condanna definitiva per mafia arriverà solo dieci anni più tardi. Dulcis in fundo il caso del boss Ettore Lanzino che nel 2008 risultava anche lui in forza alla coop di Rende. «Assunzione certamente anomala» riconosce il Collegio, rispetto alla quale emerge «un rimbalzo di responsabilità» fra tre dirigenti, ma senza prove «di un’ingerenza da parte di Principe, Ruffolo o Bernaudo».

Il patto elettorale che non c’è

I giudici liquidano poi i collaboratori di giustizia perché parlano per sentito dire, dedicando un focus solo a Roberto Calabrese Violetta e ad Adolfo Foggetti. Riguardo ai voti, poi, quelli non bastano per dimostrare l’esistenza di un accordo illecito. «Le promesse di appoggio elettorale – scrivono i giudici – gli interessamenti rispetto alla vittoria dell’uno o dell’altro non sono sufficienti, se non vi è la prova di uno specifico accordo e non solo una generica promessa elettorale di utilità».

Il ragionamento è applicato alla posizione di Gagliardi e poi esteso agli altri imputati. Il senso del discorso è che Di Puppo può aver appoggiato Principe, ma «fare campagna elettorale o dare sostegno a un candidato è circostanza in sé neutra». Servono le prove di un patto stipulato fra le due parti in causa. E nel caso di specie, secondo i tre togati queste prove non ci sono.

Le motivazioni sono state depositate lo scorso 22 novembre e a partire da allora, la Dda ha 45 giorni di tempo a disposizione per decidere se presentare o meno ricorso in Appello contro le assoluzioni. Principe è difeso dagli avvocati Franco Sammarco e Anna Spada; Ruffolo dagli avvocati Franz Caruso e Francesco Tenuta; Bernaudo dall’avvocato Francesco Calabrò e Gagliardi dall’avvocato Marco Amantea.

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