Cosenza, in via Guido Dorso c’era un bombarolo | FOTO GALLERY
I retroscena sull'attentato dinamitardo che all'inizio del 1982 devastò gli uffici della questura allora ubicati nei pressi dell'autostazione
Un posto fisso di polizia alle Autolinee cosentine. In molti lo invocano, altri sono contrari. Più in generale, il degrado che interessa l’area e i ripetuti episodi di microcriminalità hanno riportato in primo piano un dibattito che si trascina da anni. C’è stato un tempo, però, in cui nella zona dell’autostazione insisteva ben più di un semplice presidio delle forze dell’ordine. C’era addirittura un’intera questura, che fino alla metà degli anni Ottanta era ubicata in via Guido Dorso. Una presenza rassicurante, che metteva l’intero quartiere al riparo dalle impennate della delinquenza comune. Con qualche controeffetto. Quarantuno anni fa, infatti, proprio la sede allora diretta dal questore Alfonso Noce diventa bersaglio di un attentato epocale, il più grande attacco al cuore dello Stato verificatosi a Cosenza. A tutt’oggi secondo solo all’omicidio di Sergio Cosmai.
Tutti vivi, ma solo per miracolo
La notte del 18 gennaio 1982 Cosenza è scossa da un boato. Capita spesso in quel periodo, giacché i clan che esercitano il racket in città sono adusi all’utilizzo di bombe carta per intimorire commercianti e imprenditori che non pagano il pizzo. Quel fragore, però, rappresenta qualcosa di mai udito prima d’allora. A determinarlo è stato un quantitativo imprecisato di gelatina esplosiva, piazzata all’ingresso degli uffici della Squadra Mobile. La forza d’urto della dinamite buca la cancellata di ferro e lo spostamento d’aria manda in frantumi le finestre di tutto l’edificio. Le schegge di metallo e vetri inondano le stanze della questura come proiettili impazziti e solo per una fortunata coincidenza non mietono alcuna vittima. Tutti gli agenti, infatti, si sono spostati in una stanza più interna che è raggiunta solo in modo marginale dalla deflagrazione. Il bilancio finale sarà solo di tre feriti. Poteva essere una strage, ma per fortuna le cose vanno diversamente.
La pista politica e la falsa rivendicazione
Sono gli anni delle Brigate rosse e così le prime indagini seguirono la pista dell’estremismo politico. Gli investigatori dell’epoca, ritengono che la bomba possa essere una sorta di benvenuto a Noce, insediatosi pochi giorni prima in città. L’idea è tutt’altro che peregrina. Prima di arrivare a Cosenza, il neoquestore è stato responsabile dei Servizi di sicurezza per il Lazio. Nel 1976, i Nuclei armati proletari (Nap) gli tendono un agguato a Roma, in via Monteverde, e nello scontro a fuoco perde la vita uno degli attentatori, il nappista Martino Zichitella. Quell’ordigno è dunque un gesto dimostrativo per vendicare il compagno caduto sei anni prima? Sembra proprio di sì, anche perché nel frattempo l’attentato cosentino è stato effettivamente rivendicato da una sigla dell’extraparlamentarismo di sinistra. L’inchiesta, però, non porta all’identificazione di alcun colpevole.
La guerra di mafia non c’entra
Gli investigatori ripartono da capo e, stavolta, concentrano il loro interesse sulle due bande cittadine che da tempo si fronteggiavano in uno scontro all’ultimo sangue. A quel tempo la prima guerra di mafia è nella fase più cruenta, con il clan Perna-Pranno e la cosca Pino-Sena impegnati a spararsi addosso per ottenere il controllo del territorio. Malgrado ciò, nulla sembra collegare quella faida a un proposito stragista contro le forze dell’ordine. E così, anche quest’altro spunto investigativo si rivela privo di sviluppi. Con il passare del tempo, sembra che sull’identità del bombarolo di via Guido Dorso debba calare l’oblio, ma all’inizio degli anni Novanta, sulla scena giudiziaria locale fanno irruzione i collaboratori di giustizia. Molti fra capi e gregari della malavita locale si pentono e, tra una confessione e l’altra, qualcuno di loro parla anche di quella dinamite ancora in cerca d’autore.
Arrivano i pentiti, la verità di Pagano
Il primo a farvi accenno, nel 1993, è Roberto Pagano, ex affiliato al clan Perna-Pranno che addossa tutta la responsabilità del caso al gruppo rivale. I mandanti di quell’intimidazione, a suo dire, sarebbero Franco Pino e Umile Arturi, all’epoca infastiditi per le attenzioni eccessive riservate loro dalla polizia. Secondo Pagano, i due boss ritenevano che gli agenti indagassero sulle loro attività illecite con maggior zelo rispetto a quello mostrato nei confronti del gruppo Perna, e così si sarebbero vendicati in quel modo così rumoroso. Per il pentito, dunque, è la paranoia che determina quell’azione dimostrativa, la stessa che pochi mesi più tardi, nell’estate del 1982, avrebbe portato all’uccisione dell’avvocato Silvio Sesti. Caso risolto, undici anni dopo? Neanche per idea. Nel 1995, infatti, si pente anche Franco Pino. E la sua verità sull’attentatuni di via Dorso è molto diversa da quella di Pagano.
Marcello il bombarolo
L’ex boss ne parla in uno dei suoi primi interrogatori e punta il dito contro un suo ex affiliato di nome Marcello Gigliotti. Nel 1982 ha solo 19 anni e brilla già nelle rapine a mano armata, ma non è un delinquente come tutti gli altri. Gigliotti frequenta gli ambienti dell’estrema destra, e quando decide di abbracciare il crimine si porta appresso anche la mistica di un certo neofascismo. «Quando parlava di politica gli brillavano gli occhi, lo vedevi che era contento», rammenterà in seguito Pino. Malavita e terrorismo, dunque. Sembra che la verità sulla mancata strage dei poliziotti si collochi a metà strada rispetto alle prime piste seguite dagli investigatori. E invece, nulla di tutto ciò. Secondo il pentito, infatti, quel giorno d’inverno a ispirare Gigliotti è qualcosa di molto più prosaico. «Era stato fermato da alcuni agenti per un controllo e uno di loro lo aveva maltrattato. Mi pare gli avesse dato uno schiaffo». Una banale rivalsa insomma, ma attuata con tecniche paramilitari: potrebbe essere andata così, anche se manca la controprova. Gigliotti, infatti, finisce ammazzato nel 1986 in seguito a un’epurazione avvenuta all’interno del suo stesso gruppo. E da allora, si è portato appresso anche il segreto sul tritolo di gennaio.
La tentazione di coinvolgere un pm
La vicenda avrà un seguito decisamente singolare. Accade nei giorni dell’inchiesta “Garden”, il primo maxiprocesso contro la malavita locale. Nel tentativo di scampare alle condanne, dalle gabbie degli imputati si tenta di attuare una politica di delegittimazione degli inquirenti. Una strategia che, tra le altre cose, passa dall’attentato di via Dorso. È sempre Pino a svelare questo retroscena, da lui appreso poco prima di intraprendere la collaborazione. «Pensammo di far circolare la voce che Gigliotti era amico del dottor Stefano Tocci e che, insieme, avevano piazzato quella bomba». Tutto questo, il boss dagli occhi di ghiaccio lo riferisce proprio a Tocci, il pubblico ministero che in “Garden” rappresenta la pubblica accusa. È un’altra bomba, la seconda in questa storia. A differenza dell’originale, però, disinnescata in tempo.