Non serve scovarne le foto tra le pieghe di Internet per vedere la bellezza dei loro volti: «gli eroi sono tutti giovani e belli», cantava Guccini in uno dei suoi brani più famosi che con la Resistenza c’entra poco ma qualcosa, evidentemente, c’entra se viene in mente proprio questa frase.

Alcuni, giovani e belli lo sono rimasti per sempre, consacrati ai loro vent’anni dalla lotta portata avanti fino all’estremo sacrificio. Altri quei giorni disperati e di speranza sono riusciti a raccontarli a figli e nipoti: perseguitati, in fuga e costretti a nascondersi, ma salvi infine. Vissuti «di stenti e di patimenti», sono i nostri «ribelli della montagna», per citare stavolta un canto che di Resistenza è tutto intriso. Il canto di chi lasciò «case, scuole ed officine» del territorio cosentino per temprare «cuori e muscoli in battaglia» lontano da casa.

E della battaglia si portarono appresso i nomi, che affiancarono e a volte sostituirono quelli anagrafici, consegnandoli alla memoria collettiva come Facio, Bill, Vitto. Erano contadini, avvocati, medici, impiegati e artigiani, tutti animati dall’«amor per patria nostra».

Era avvocato Franco Bugliari, nato a Santa Sofia d’Epiro. Antifascista da sempre, prese parte alla Resistenza romana nei gruppi di “Giustizia e libertà”. Fu catturato dai nazisti e sottoposto a tortura, per poi essere trasferito in un campo di concentramento in Germania, dove però non arrivò mai: riuscì a infatti a fuggire durante il viaggio. Fu poi tra i membri della presidenza onoraria dell’Anpi. Morì a Roma nel 1967.

Avvocato era pure Raffaele De Luca, nativo di San Benedetto Ullano. Anarchico prima, aderì poi al Partito socialista. Durante il Ventennio si trasferì a Roma, dove fu tra gli organizzatori del gruppo comunista “Scintilla”, che divenne poi Movimento Comunista d’Italia. Diresse “Bandiera Rossa”, organo del movimento, che dopo l’armistizio divenne il nome di uno dei gruppi della Resistenza romana. Il suo attivismo lo portò dietro alle sbarre di Regina Coeli. Processato per diffusione di stampa clandestina e organizzazione di bande armate, fu condannato a morte da un Tribunale militare di guerra tedesco. Nonostante si fosse rifiutato di firmare la domanda di grazia, riuscì a evitare la fucilazione grazie agli antifascisti attivi nel carcere che con un espediente ne impedirono il trasporto sul luogo dell’esecuzione. Uscì il giorno della Liberazione di Roma, morì a Roma nel 1949.

Nato a Rogliano, avvocato era anche Donato Bendicenti e anche lui partecipe della Resistenza romana. Membro del Comitato forense di agitazione, era diventato partigiano nella Banda del quartiere Trionfale. Fu arrestato nel 1944 e interrogato a lungo, per poi essere ucciso alla Fosse Ardeatine. A lui Cosenza ha intitolato una via.

A Cosenza era nato invece Ubaldo Montalto. Dipendente delle Poste, sindacalista e iscritto al Psi, fu più volte arrestato durante il regime fascista e, dopo il licenziamento, confinato a Favignana. Dopo il confino diventò militante comunista e, dopo la caduta di Mussolini, partecipò all’occupazione della Prefettura, del Municipio e della sede dei sindacati fascisti. Divenne poi consigliere comunale del Pci di Cosenza e qui morì nel 1957.

Si chiamava Salvatore Marco De Simone ma è ricordato, nella sua Rossano e non solo, come Marco, quello che divenne il suo nome di battaglia quando nel 1944 il Pci, nelle cui file militava, lo inviò a Ravenna come capo partigiano, affidandogli la direzione politico-militare di due zone. Già prima, mentre si trovava a Firenze per lavoro, aveva stabilito contatti con il fronte dei partiti antifascisti. Tornò in Calabria nel 1945, dove portò avanti la sua attività politica ricoprendo incarichi istituzionali importanti, tra cui quello di senatore. Morì a Firenze nel 1994.

Particolarmente commovente la storia di Vincenzo Errico, nome di battaglia “Vitto”, nato a Verbicaro e morto ad appena 22 anni a Borgo Val di Taro, in provincia di Parma. Partigiano della prima Brigata Julia, catturato dai nazisti durante un’azione assieme al suo amico appena 19enne Luigi Bozzia detto “Guelfo”, venne giustiziato con un colpo di pistola alla tempia. Il suo corpo fu recuperato dai partigiani e dal padre di “Guelfo”, il cui cadavere decapitato venne ritrovato solo dopo 23 giorni di speranza e vane ricerche. I due ragazzi furono seppelliti uno accanto all’altro dal padre di Luigi Bozzia, che dirà: «Sono i miei figlioli».

Sempre in Emilia Romagna, in una via di Parma, c’è una lapide con sopra il nome di Geniale Bruni, nato ad Aiello Calabro e poi trasferitosi ad Acquappesa. Geniale si era arruolato dapprima nell’esercito per poi passare, dopo l’armistizio, nelle file della 143ma Brigata partigiana Garibaldi. A Parma fu imprigionato e successivamente condotto nel campo di transito di Bolzano e da qui trasferito nel lager di Mauthausen in Austria, dove morì di polmonite il 5 maggio 1945, appena due mesi prima dell’arrivo dell’esercito americano. 

C’è poi la storia controversa di Dante Castellucci, il partigiano “Facio”. Nato a Sant’Agata d’Esaro, fu chiamato alle armi allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e arruolato tra gli alpini. Animo d’artista, suonava il violino e la chitarra, recitava, scriveva poesie, disegnava. Attivo antifascista, si trasferì a casa Cervi, a Gattatico, dove venne catturato assieme ai sette figli di Alcide. Fingendosi un soldato francese riuscì a farsi rinchiudere in un carcere diverso da quello dei fratelli Cervi e a evitare la fucilazione fuggendo e unendosi alle bande armate della Resistenza parmense. Alla fine verrà giustiziato dagli stessi partigiani, accusato – secondo molte testimonianze ingiustamente – di aver sottratto un lancio di rifornimento paracadutato dagli alleati e destinato a un altro gruppo. Nonostante alcuni compagni si fossero offerti di aiutarlo a scappare, si presentò davanti al plotone d’esecuzione e morì all’alba del 22 luglio 1944.

Ci furono poi quanti – come Mario Martire, Mario Del Missier, Filippo Caruso, Emilio Cirino – transitarono dall’esercito alla lotta contro l’invasore tedesco in seguito all’armistizio, saldando a volte con la morte il conto di questa scelta. Il sergente del Genio Ippolito Montalto, cosentino, passò alla Resistenza assumendo il nome di battaglia “Bill” e conservando con orgoglio il “brevetto di partigiano” fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1978. E ci fu chi, come il medico cassanese in servizio a Imola Francesco D’Agostino, pagò per l’aiuto dato alla lotta di Liberazione: incarcerato, processato per aver fornito alla Resistenza materiale sanitario e condannato a morte, fu fucilato al Poligono di tiro di Bologna. E le partigiane Caterina Fadel di Cosenza, Giovanna Vuorinna di Rossano e Maria Iaconetti di Carolei, in merito alle quali le notizie reperibili si scontrano con il ruolo di secondo piano al quale la storia ha a lungo relegato le donne.

Alcuni ribelli da sempre, altri in lotta per la Liberazione solo dopo la caduta di quel regime che in tanti, anche tra le strade della provincia di Cosenza, avevano avversato a rischio della propria incolumità. Eroi senza armi se non quelle del coraggio e delle idee come Cesare Curcio a Pedace – che qui diede tra l’altro ospitalità a Pietro Ingrao in fuga dall’Ovra – o il calzolaio intellettuale Cesare Rossi a Rossano, che dopo una vita da antifascista il Paese libero non riuscì nemmeno a vederlo perché la morte lo colse prima. Un mosaico di colori diversi che a noi è stato consegnato per rendere il giusto onore, ancora e sempre, a chi, a costo di sofferenze e finanche della propria vita, ci ha consegnato un sogno realizzato ma da difendere giorno per giorno: quello di un’Italia libera.