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Bisognerà aggiornare l’antico adagio di Baudelaire: il più grande inganno del Diavolo non è far credere al mondo che egli non esista, bensì far credere che si sia pentito. Nel caso di Antonio Forastefano, ex boss dell’omonima cosca, bisognerà aggiornarlo, sia in virtù di quel soprannome infernale che si porta appresso – “Il diavolo” per l’appunto – sia perché la sua parabola da collaboratore di giustizia sembra proprio la cronaca di un inganno. Di questo, almeno, si era già convinta la Dda nel 2015, al punto da escluderlo dal programma di protezione a soli quattro anni dalla sua conversione.
«Ha accuratamente evitato di accusare persone della criminalità organizzata cassanese, è entrato in contrasto con le dichiarazioni dei collaboratori che lo hanno preceduto e non ha fornito alcun elemento contro gli zingari nel processo Timpone rosso», queste in sintesi le spiegazioni addotte all’epoca per motivare la fine del suo percorso collaborativo.
Di lui, però, si è tornato a parlare negli atti dell’inchiesta “Gentlemen 2”. O meglio, sono due indagati a parlarne, ignorando di essere intercettati. E per una volta, il loro pensiero è in sintonia con quello dei magistrati. «Antonio il Diavolo non sta parlando più eh?» chiede uno di loro all’altro, ottenendo in cambio questa risposta: «Ma quello ha fatto un’operazione che ha fatto prendere gli stessi che volevo far prendere io… per fare liberare i fratelli… come se si fosse accollato tutto quanto lui… e gli altri li ha lasciati».
Antonio Forastefano, 52 anni, è stato fra i protagonisti più oscuri della guerra di mafia combattuta nella Sibaritide tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio. Il clan da lui guidato, per anni contrapposto a quello degli zingari, è stato poi messo in ginocchio nel 2006 dall’operazione antimafia “Omnia”. L’attualità investigativa vuole che i due gruppi abbiano messo da parte ogni forma di conflittualità e che siano oggi una cosa sola.