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Pensava di essere diretto a Cirò ad acquistare delle armi. Un compito di routine per Salvatore “Turuzzu” Di Cicco, ma non sapeva che quello del primo settembre 2001 sarebbe stato per lui un viaggio senza ritorno. Quel giorno, infatti, scatta la trappola ordita da quelli che fino al giorno prima erano i suoi amici e compagni di malefatte. E ad accompagnarlo incontro al suo destino, come avviene sempre in questi casi, è una persona di cui lui si fidava, quel Ciro Nigro che diventato oggi collaboratore di giustizia ha raccontato per filo e per segno tutti i particolari di quella giornata macabra.
Il piano era curato fin nei minimi dettagli. Partito da Cassano, Di Cicco lascia il suo fuoristrada in una stazione di servizio di Calopezzati e monta in auto con Nigro diretto a Torretta di Crucoli. I due fanno una tappa intermedia, passano da casa di un complice a ritirare i sette milioni di lire che serviranno per l’acquisto delle armi. «Li tengo io» dice Di Cicco riferendosi al denaro. «No, dalli a Ciro». È solo un capitolo della recita, ma il diretto interessato ancora non lo sa.
Le regole d’ingaggio per Nigro le ha dettate poco prima Nicola Acri: «Devi fare come dico io – gli dice “Occhi di ghiaccio” – lo devi portare là e poi non devi fare più niente». Così facendo, frena la sua smania perché quell’omicidio, come ammetterà lui stesso nel 2015, voleva essere lui a eseguirlo materialmente. Non sarà così: giunto a Torretta di Crucoli, in un posto isolato e in aperta campagna, invece delle armi promesse, ad attendere Di Cicco c’è un altro plotone d’esecuzione.
Non lo uccidono subito, prima lo immobilizzano, il che gli dà modo di un ultimo e drammatico scambio di battute con l’amico che lo ha tradito. «Ma perché, cosa ho fatto?» gli chiede Di Cicco. E Nigro: «Chistu l’hai a sapiri tu, io non u sacciu c’ha fattu». La vittima designata non si rassegna: «Ma io non ho fatto niente» e la risposta che ottiene dal suo interlocutore è raggelante: «Mi dispiace ca non mu fannu fare a ‘mmia».
Stando al racconto di Nigro, a quel punto il povero Di Cicco muore due volte. Il killer, che il pentito indica in Giuseppe Spagnolo alias “Peppe u banditu” estrae una pistola calibro 7.65 per eseguire la sentenza di morte, ma l’arma s’inceppa. «Allora ha pigliato ‘nta na busta na 38, c’ha misu due colpi dentro, ha chiuso e gli ha sparato due volte». Mentre il resto del gruppo provvede a seppellire il corpo di Di Cicco, Nigro sale a bordo della sua auto e torna a casa. Da solo.
Il suo compito però non è ancora terminato, così come la messinscena tragica. C’è da fare una chiamata sul telefono dell’uomo che ha appena consegnato al boia. Ovviamente, l’obiettivo è quello di dissimulare. Il cellulare di Di Cicco è stato distrutto e così non risponde altro che la segreteria. Anche questo fa parte del gioco. Nigro, infatti, lascia un messaggio di questo tenore: «Ma scusa nu poco, mi stai facendo aspettare a la casa, avivi e venire all’una, ma io on è che ca pozzu aspettare a ‘ttia tuttu u juornu».