‘Ndrangheta, quando i boss di Cosenza giocavano a fare i sindacalisti
C'è stato un tempo in cui boss come Franco Pino e Domenico Cicero cercavano di accrescere il loro prestigio rendendosi popolari presso l'opinione pubblica
Un ritorno all’onorata società. Quella che non si limitava a vessare la popolazione, ma riusciva a renderla anche contenta e felice di essere vessata. A Cosenza e dintorni, il caso di Gianfranco Sganga, immortalato dalle intercettazioni dell’inchiesta “Recovery”, non è isolato. Altre indagini recenti, infatti, dimostrano come l’umanesimo applicato alle regole di ’ndrangheta sia una filosofia prediletta da altri giovani e rampanti boss. Ad esempio Luigi Abbruzzese, l’uomo considerato come il capo dei nomadi di Cassano, che quasi in rottura con lo stile del proprio clan d’origine – notoriamente duro e poco incline ai sentimentalismi – viene descritto da alcuni suoi sodali come uno disposto a vuotarsi le tasche e a restare senza soldi per aiutare le persone in difficoltà.
Due vicende parallele che dovrebbero stimolare la curiosità dei studiosi ed esperti di antimafia, investigatori e magistrati inquirenti in primis. Si tratta di casi isolati o del primo segnale di un ritorno alle origini, di una nuova tendenza criminale che non mira a incutere solo timore, ma punta alla ricerca del consenso sociale? Per la delinquenza cosentina, ancorata com’è ai canoni del gangsterismo più che a quelli della mafia tradizionale, una svolta così rappresenterebbe una novità. Tuttavia, nel passato recente, non mancano esempi che ricalcano quelli più attuali di Sganga e Abbruzzese.
Il pensiero va subito a Luigi Palermo alias “U zorru”, lo storico padrino di Cosenza che, prima di essere ucciso, il 12 dicembre del 1977, era riuscito a guadagnarsi «la malsana ammirazione dell’opinione pubblica». Anche il suo successore, nonché responsabile del suo omicidio, Franco Pino, per quanto in antitesi con il vecchio patriarca sul modo di intendere il crimine, non si allontanava molto da lui in termini di rapporto con la cittadinanza. Una sua “nostalgia”, esternata ai tempi in cui era già pentito, sublima lo stile: «Quando venivano da me in cento, ognuno con un problema diverso, e quei problemi io li risolvevo tutti o quasi, ecco: questo mi faceva sentire realizzato». Tra i problemi che “risolve”, a metà degli anni Ottanta, c’è anche quello che riguarda il pantalonificio Valentini. E’ una vicenda che ha fatto scuola. All’epoca l’azienda annuncia una serie di licenziamenti e, per tutta risposta, i dipendenti proclamano uno sciopero che, però, resterà solo sulla carta. Proprio Pino, infatti, parlerà in extremis con i rappresentanti dei lavoratori, rassicurandoli sul fatto che nessuno avrebbe perso il posto. Accadeva pure questo.
Il sindacato di Micuzzo Cicero
L’esempio più rappresentativo, però, arriva sempre da un’intercettazione telefonica, seppur d’antan – correva l’anno 2007 – e riguarda Domenico Cicero detto “Micuzzo” che, non a caso, di Sganga è stato mentore e primo leader criminale. A quel tempo fervono le indagini di “Anaconda”, l’inchiesta che di lì a poco porrà fine al vecchio clan di San Vito, e tra una captazione e l’altra, i carabinieri si accorgono di aver a che fare con un sindacato di ‘ndrangheta. Cicero, infatti, dispensa piccoli favori e interventi riparatori a destra e manca. C’è una signora che ha bisogno di una visita specialistica? Si tratta di una cosa urgente e i tempi dell’ospedale sono piuttosto dilatati? Nessun problema, a lui basta una telefonata per mettere a posto le cose.
Particolarmente indicativa è la telefonata intercorsa con tale Antonio, figlio di un imprenditore che, alcune settimane prima, ha preso alle sue dipendenze un giovane segnalato proprio da Micuzzo. Le cose, però, non vanno come sperato, tant’è che un giorno la moglie si reca a San Vito per lamentarsi del trattamento riservato al coniuge sul posto di lavoro. L’intervento di Micuzzo sarà immediato. «Di’ a tuo padre di fare il galantuomo altrimenti mi girano i coglioni. La gente, la gente non sono schiavi» sbotta al telefono il boss. Il suo interlocutore nega, si mostra stupito di quelle accuse – «No, è impossibile» – ma Cicero rincara la dose: «Sì, è venuta qua la moglie a piangere! Lo tratta male, dice che non lo paga, dice che lo prende con la mazzetta… Aho!».
A questo punto il dialogo assume contorni tragicomici, perché l’uomo finisce quasi per ammettere che suo padre utilizza il martello per picchiare i suoi dipendenti, ma questi rimedi medievali non riguardano il protetto del boss. «Ma no a lui ohi Micù!» tenta di obiettare. L’altro, però, non vuole sentire ragioni: «A lui, a lui personalmente! Per cortesia fai la persona corretta e adulta, se no chiudo il telefono e non parliamo più». Non paventa ritorsioni pesanti nei suoi confronti. Gli basta minacciare di interrompere i contatti con lui, per scatenare il panico nell’interlocutore. Che dal canto suo, cerca di raccontargli tutta un’altra storia: «No, ohi Micù! Se io ti dico che con quello si vanno a bere la birra insieme, l’unico che ci va d’accordo con papà è lui».
Cicero, però, non crede che il quadro sia così idilliaco: «Io ti sto dicendo che è venuta la moglie adesso qui a piangere da me! Dice che il marito deve lavorare dalle cinque di mattina fino alle cinque-sei del pomeriggio! Dice che non lo paga…aho! Ma che sono queste parole?». Il figlio del padrone ammette che il ragazzo segnalato dal boss si è comportato bene. Già prima di cominciare il lavoro, gli avevano offerto un acconto da duecento euro, ma lui si era accontentato di cinquanta. «Ecco, ti ha fatto vedere la sua correttezza – lo incalza Cicero – Loro non ne hanno soldi! Per farti capire: aveva l’esigenza dei soldi e nemmeno te li ha chiesti, ma essere maltrattato nemmeno». L’altro si fa sempre più sottomesso: «No, no… maltrattato è peccato ohi Mìcù». E Micuzzo: «Eh appunto», un sottolineatura che anticipa l’atto finale di contrizione: «Mhu… mannaggia alla madosca, mi sento male io mo’».
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