mercoledì,Febbraio 12 2025

Addio alla ‘ndrangheta di Cosenza, i “dissociati” prima di Michele Di Puppo

In passato altri esponenti della malavita di Cosenza hanno scelto la via della dissociazione, alcuni di loro sono riusciti a evitare l'ergastolo

Addio alla ‘ndrangheta di Cosenza, i “dissociati” prima di Michele Di Puppo

La dissociazione di Michele Di Puppo dalla ’ndrangheta, formalizzata ieri davanti ai giudici del Riesame nell’ambito dell’inchiesta “Recovery”, riporta in primo piano il tema di un dibattito annoso e ultratrentennale: è giusto o no concedere un’attenuante speciale – e dunque uno sconto di pena – a quei mafiosi che confessano i reati di cui si sono macchiati senza muovere accuse ai propri complici? In Italia un’operazione analoga si realizza negli anni Ottanta, per chiudere la stagione dell’Anonima sequestri prima e quella del terrorismo politico poi, ma già dal decennio successivo, diversi uomini delle Istituzioni, Luciano Violante in primis, si pongono il problema di estendere tali agevolazioni anche in contesti di crimine organizzato.

La proposta di Luciano Violante

Sono passate poche settimane dalle bombe mafiose esplose e a Roma, Firenze e Milano e l’allora presidente della commissione parlamentare Antimafia rimarca, in un’intervista, la necessità di «portare fuori dell’associazione mafiosa i poveri cristi, quelli che, per poche lire passano dal contrabbando di sigarette all’omicidio, alla strage. Noi dobbiamo spaccare la mafia, come abbiamo fatto con i terroristi, ma senza chiedere le accuse ai correi. Dobbiamo poter dire loro: dichiarate i vostri delitti e uscite dalla mafia, avrete una pena ridotta. Separate le vostre responsabilità da quelle dei capi». Non se ne farà nulla, anche in ragione della contrarietà delle Procure e, in seguito, lo stesso deputato dell’allora Pds cambierà idea in proposito. All’epoca, però, l’eco delle sue parole arriva anche a Cosenza, dove è in corso il maxiprocesso “Garden”.

L’idea di una “dissociazione” di massa a Cosenza

In quei giorni, corre l’anno 1996, ben 118 persone sono alla sbarra nell’aula bunker di via degli Stadi perché accusate di aver fatto parte dei due clan di malavita che, nei vent’anni precedenti, hanno tenuto sotto scacco la città e l’hinterland. Molti di loro, a dibattimento in corso, annunciano di voler intraprendere il percorso della dissociazione. Alcuni dicono di averlo sentito dire proprio «a Violante», altri ammettono di confidare così in «uno sconto di pena». Buona parte di questo gruppo ripiegherà poi sulla collaborazione con la giustizia vera e propria e, a conti fatti, i dissociati resteranno in pochi. Su tutti: Gianfranco Ruà, Antonio Musacco, Salvatore Pati, Raffaele Mazzuca, Giuseppe Iirillo e Giulio Castiglia.

I giudici di primo grado bocceranno questa strategia, definendo, senza mezzi termini, la dissociazione come un «fenomeno che esprime forti segnali di omertà immanente e permanente». A loro avviso, infatti, gli imputati cosiddetti “dissociati” «offrono conferme solo a fronte di incontestabili prove d’accusa» e sono mossi «da un preciso calcolo di attesa di benefici processuali, rimanendo, però, ben attenti a far nomi di altri imputati tranne che non siano morti o collaboratori».

‘Ndrangheta Cosenza, la bocciatura dei giudici di primo grado

In quella sentenza, alla dissociazione si attribuisce un significato diametralmente opposto a quello a cui, invece, almeno formalmente, la stessa dovrebbe ispirarsi: «Un atteggiamento – culturale prima che processuale – di adesione ed accettazione profonde della comune “appartenenza” al gruppo e della lealtà a esso dovuta, con la condanna di ogni forma di tradimento, che sono, in verità, tipiche manifestazioni di omertà interna a una realtà associativa mafiosa, di cui valgono bene, dunque, ad esprimere il valore e la portata ancora attuali». Quella degli imputati di “Garden”, dunque, a giudizio della Corte d’assise presieduta da Franco Morano, è una dissociazione «che non si lascia apprezzare». I casi più emblematici, trattati in quel processo, riguardano Musacco e Pati, gli unici sui quali pende l’accusa più grave: quella di omicidio. È lì che la dissociazione può avere o meno effetti significativi sulla punizione finale. E in entrambi i casi, finisce per non averne.

Il caso di Antonio Musacco

All’epoca, Antonio Musacco è un alto gerarca del clan Perna-Pranno. Comanda la piazza Piccola, è contabile e capo di un sottogruppo criminale. Protagonista della prima guerra di mafia, sarà anche tra i primi ad attivarsi nelle trattative che, a metà degli anni Ottanta, portano alla pace mafiosa con il gruppo Pino-Sena.  Un capo, insomma, e in quanto tale è riconosciuto ideatore dell’eliminazione di Mario Maestri (1981), cuoco dell’allora ristorante “Piccadilly” di via Nicola Serra. In aula, il diretto interessato ammette il proprio coinvolgimento, presentandosi però come «partecipe del delitto e non mandante». Si proclama poi dissociato «fin dal 1982», riduce il clan Perna a «una banda di ladri», confessa una sola estorsione e si dichiara «estraneo» alle altre di cui è accusato. Insomma, una dissociazione a cui il Tribunale non attribuisce «alcun pregio». Il risultato, va da sé, è la condanna all’ergastolo.

E quello di Salvatore Pati

Discorso diverso per Pati. All’epoca, lo chiamano “Tuturo il cacciatore” per la sua abilità nell’uso del fucile. «Era nelle postazioni della guerra», dirà di lui Franco Pino. «Una persona dalla quale ci guardavamo». E non c’è bisogno di aggiungere altro. Sarà proprio Pati a infliggere il colpo di grazia a Mariano Muglia, bersaglio in movimento, e proprio per questo omicidio sarà poi condannato a “Garden”. Anche lui, nelle vesti di dissociato, tenta di minimizzare il suo apporto al gruppo delinquenziale con cui sostiene di aver chiuso «nel 1983», l’anno del delitto Muglia. In realtà, confessa la sua partecipazione a un altro omicidio non oggetto di imputazione nel processo, quello di Gildo Perri (1979), ma le sue ammissioni, con a margine la chiamata in causa solo di pentiti o gente ormai defunta, non vengono tenute in alcun conto dai giudici.

‘Ndrangheta Cosenza, la dissociazione “vince” in Appello

A differenza di Musacco, però, ottiene le attenuanti generiche. Nonostante la sua caratura criminale, infatti, si presenta all’appuntamento con “Garden” quasi da incensurato. Nei suoi precedenti penali, trovano posto solo piccoli furti e violazioni al codice della strada. In più, non è un capo come Musacco. Sarà condannato a ventotto anni di carcere. Questa sarà la sua pena definitiva. Per Musacco, invece, le carte si rimescolano in Appello. A differenza dei loro colleghi cosentini, infatti, i giudici di Catanzaro attribuiscono un peso alla sua dissociazione. L’approccio al tema non è più “filosofico”, ma assertivo. Le sue confessioni, «seppur parziali», giustificano, a parere della Corte, la «concessione delle attenuanti generiche». E tanto basta. Il risultato è la cancellazione dell’ergastolo. Gli sarà assegnata la stessa pena di Pati.       

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