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Ventitré anni. È la richiesta di pena avanzata nei confronti di Isabella Internò, 55 anni, la donna che la Procura di Castrovillari ritiene responsabile di un omicidio “eccellente” commesso il 18 novembre del 1989, quando lei di anni ne aveva solo venti: quello dell’allora calciatore del Cosenza Donato Bergamini. Il pm ha chiesto l’esclusione, perché non dimostrate, dell’aggravante della crudeltà e di quella dell’utilizzo del mezzo insidioso e venefico, chiedendo invece il riconoscimento della premeditazione e dei motivi abietti e futili. La richiesta di pena non si è tradotta in richiesta di ergastolo perché la stessa Procura ha chiesto per lei il riconoscimento delle attenuanti generiche. «Non le meriterebbe» ha affermato in aula il procuratore di Castrovillari, Alessandro D’Alessio, «ma è comunque una persona diversa da com’era all’epoca» .
L’udienza si era aperta con un’introduzione (la seconda) del procuratore di Castrovillari, Alessandro D’Alessio che ha ribadito come, a suo avviso, il delitto sia maturato in un «contesto patriarcale» e che la Internò fosse giunta a tale determinazione a causa della mancata celebrazione «di un matrimonio riparatore», quello che ragazza avrebbe desiderato nel 1987 dopo essere rimasta incinta del calciatore. «Quando Bergamini ha interrotto definitivamente i rapporti con lei – ha chiosato D’Alessio – la prospettiva di quel matrimonio è diventata evanescente». E così, avrebbe deciso di ucciderlo. A riprova di ciò, per dirla con parole sue, ci sarebbero «diverse pezze d’appoggio».
Per comprendere il contesto, come già fatto ieri, il rappresentante dell’accusa ha invitato la Corte a immergersi idealmente nella Calabria del 1989. Il magistrato ha rievocato le cosiddette «fujitine», ne ha illustrato in aula il significato, le ha ricollegate al contesto meridionale di qualche decennio fa a riprova di quanto fosse ordinario, nella mentalità dell’epoca, il ricorso al matrimonio riparatore. Che sia stato un delitto d’onore, secondo D’Alessio, lo dimostrano i racconti di tre testimoni: Roberta Sacchi (quella del discorso delle lupare), Roberta Alleati (la presunta fidanzata segreta) e, soprattutto, Tiziana Rota, l’amica a cui Isabella, riferendosi a Bergamini, avrebbe sibilato: «Meglio morto che di un’altra».
La linea della Procura è nel segno della fede assoluta nelle loro dichiarazioni, con una menzione speciale per la Rota. Non a caso, il procuratore l’ha inquadrata come «una delle tre architravi di questo processo» e, in seguito, il pm Luca Primicerio arriverà a definirla «il testimone ideale, quella che ogni Tribunale vorrebbe avere». Sono queste tre donne (la Alleati quasi nell’immediatezza, Sacchi e Rota dal 2012 in poi) che attribuiscono a Bergamini espressioni sferzanti e dettate dall’amarezza contro la mentalità arretrata del Sud, con Roberta Alleati che riporta i presunti timori per la propria incolumità da lui manifestati due giorni prima di morire. L’incrocio delle loro dichiarazioni, l’una a riscontro dell’altra, rappresenta per l’accusa «il cuore del processo».
E sono sempre loro, le due lombarde e la ragazza di Russi, provincia di Ravenna, che dal 2011 in poi, riferiscono della gelosia morbosa di Isabella per Bergamini, «un’escalation ossessiva» secondo Primicerio, riscontrata, a suo avviso, dalle dichiarazioni rese nel tempo, da Donata e Domizio Bergamini, da Guido Delle Vacche (il già marito di Donata) e alcuni ex compagni di squadra di Denis come Sergio Galeazzi, Michele Padovano e Luigi Simoni. A margine dell’udienza, il pm ha chiesto la trasmissione degli atti in Procura per Concetta Tenuta, Roberto e Dino Pippo Internò, Luigi D’Ambrosio, Michelina Mazzuca, Assunta Trezzi e Raffaele Pisano per falsa testimonianza.