martedì,Aprile 29 2025

Fiera di San Giuseppe, la passione dei clan di Cosenza per le bancarelle

Dalla contabilità criminale di Vincenzo Dedato alla rivendicazione di Edyta Kopaczynska, passando per vimini e piatti tanto "cari" a Francesco Patitucci

Fiera di San Giuseppe, la passione dei clan di Cosenza per le bancarelle

Se la Fiera di San Giuseppe è per Cosenza una tradizione secolare, le estorsioni ai commercianti che la animano, ha tristemente rappresentato, nel corso del tempo, una tradizione nella tradizione. Anche la più recente inchiesta antimafia “Reset” dedica un capitolo al racket delle bancarelle che ogni anno, dal 12 al 19 marzo, affollano il moderno viale Parco dopo aver occupato per quasi mille anni le stradine del centro storico. Da cinquanta a cinquecento euro, questo il pizzo richiesto agli ambulanti a secondo delle dimensioni dello stand e del loro volume d’affari.

Gli ultimi, in ordine di tempo, accusati di aver sovrinteso a questo racket sono Roberto Porcaro e Luigi Abbruzzese, ma come dicevamo, il pedaggio imposto ai fieristi, in città è storia antica. Se ne trova traccia già nell’inchiesta “Garden”, quando per la prima volta alcuni pentiti – Franco Garofalo in primis – fanno riferimento esplicito al business della settimana di San Giuseppe, inquadrandolo come un’esclusiva della cosca Perna-Pranno.

Correvano gli allora turbolenti anni Ottanta, ma in epoca successiva, la musica resterà pressoché identica. Nel 2000, infatti, lo stesso tema ritorna con l’inchiesta “Squarcio”. In quel periodo, le estorsioni alla Fiera sono prerogativa della triade composta da Ettore Lanzino, Domenico Cicero e Vincenzo Dedato, con quest’ultimo che, nelle vesti di pentito, rivelerà il meccanismo ideato per far arrivare i soldi all’organizzazione: «Ogni dieci commercianti – rievocava l’ex boss – ce n’era uno dei nostri che raccoglieva i soldi delle estorsioni e ce li consegnava». Una contabilità da cui erano esclusi «i marocchini».

Nessuna opposizione, nessuna resistenza. La regola cosentina, rodata nel tempo, era ben nota a tutti. Dalle parole di Franco Bevilacqua, già capobastone del clan dei nomadi, emerge la certezza che gli stessi commercianti derubricassero l’estorsione a una sovratassa da pagare. «I responsabili delle bancarelle, i proprietari, sapevano che appena si arriva là si paga un tot» rievocava Franchino ‘i Mafarda nel 2001.
Passano gli anni, ma le peggiori tradizioni non cambiano.

E così nel 2006, la supremazia la Fiera torna a essere argomento di natura giudiziaria, perché stando alle investigazioni di quell’epoca, il profitto è conteso tra l’allora clan di San Vito e il gruppo di Francesco Patitucci. È proprio quest’ultimo, in un’intercettazione ambientale memorabile, a svelare qual è il core business dell’organizzazione: «La fortuna della fiera alla fine lo sai quali sono? Non sono le bancarelle! La fiera sono i piatti, vimini, divani eccetera eccetera!».

Pochi anni ancora, e una nuova banda si affaccerà sulla scena criminale a rivendicare un posto al sole nella settimana fatidica di marzo. Corre l’anno 2009, tempi in cui la competenza criminale sull’evento passa al clan guidato da Michele Bruni alias “Bella-Bella”. E’ un’altra intercettazione a sublimare quel cambio della guardia. A parlare è Edyta Kopaczynska, la moglie polacca del boss che, in assenza del marito, ne faceva ne veci davanti ai sottoposti. In quei giorni, apprende che un altro clan della città ha delle mire sulle bancarelle e così invia loro un emissario a cui affida poche ma sentite parole: «Vai a gli dici, ti ha mandato a dire Michele che la Fiera è nostra. Che noi abbiamo più cristiani in galera che fuori e abbiamo il diritto di prenderli [i soldi]. Tanto lo facciamo stesso. Diglielo». Funzionava così. Funzionava?

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