La vicenda giudiziaria di un uomo accusato di coltivazione di sostanza stupefacente al centro di una sentenza della Cassazione: ecco cosa dicono gli ermellini
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La Cassazione chiude la porta al ricorso di A. C., sulla misura cautelare per coltivazione di marijuana, confermando l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria disposto dal gip di Cosenza e poi “tenuto in piedi” dal Tribunale del Riesame di Catanzaro.
Il fatto
La vicenda nasce dal sequestro eseguito in casa dell’indagato: nel verbale di perquisizione domiciliare gli operanti di polizia giudiziaria avevano annotato il rinvenimento di 13 vasi, ciascuno con più piantine di marijuana, per un totale di 145 piantine, alcune essiccate e altre ancora verdi. In casa erano stati trovati anche un bilancino di precisione e lampade alogene utilizzate per riprodurre l’ambiente di una serra indoor.
La difesa ha contestato tutto, sostenendo che le piantine sarebbero state in realtà solo nove, non 145, che non vi sarebbero indici di coltivazione finalizzata allo spaccio e che il Tribunale del Riesame avrebbe “forzato” la lettura degli elementi disponibili, arrivando a conclusioni meramente congetturali anche sulle esigenze cautelari.
I ricorsi in Cassazione
La sesta sezione penale della Cassazione ha dichiarato però inammissibile il ricorso. Prima di tutto, ha ricordato un principio generale: contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali il ricorso per cassazione è ammissibile solo se denuncia una violazione di legge o una motivazione manifestamente illogica, non quando si limita a rimettere in discussione la ricostruzione dei fatti o a proporre una diversa valutazione degli elementi già esaminati dai giudici di merito. In altre parole, Roma non è il terzo grado sul merito delle misure cautelari.
Applicando questo schema, la Corte di Cassazione ha rilevato che il Tribunale di Catanzaro ha motivato in modo coerente sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Il verbale di perquisizione è un atto pubblico che fa fede fino a querela di falso: se gli operanti hanno scritto che le piantine erano 145, non c’è ragione – osserva il Collegio – per ritenere che abbiano gonfiato i numeri in modo “macroscopico” rispetto a quanto emergerebbe dalla versione dell’indagato. A questo si sommano il bilancino di precisione e le lampade alogene, elementi che fanno pensare a una coltivazione organizzata e non rudimentale.
I casi di non punibilità
Qui entra in gioco il precedente chiave delle Sezioni Unite “Caruso” sulla coltivazione domestica non punibile. La Cassazione ha richiamato quel principio: non integra il reato la coltivazione che, in assenza di segni di inserimento nel mercato illecito, sia svolta in forma domestica, con tecniche rudimentali, poche piante e una produttività prevedibile come “modestissima”, chiaramente riferibile all’uso personale esclusivo del coltivatore. Perché una coltivazione sia “atipica” e quindi fuori dal penale, tutti questi presupposti devono essere contemporaneamente presenti.
Nel caso dell’indagato, sottolinea la Corte, uno dei parametri decisivi – lo scarso numero di piante – era clamorosamente assente: 145 piantine di marijuana non possono essere lette come una coltivazione minimale. Di conseguenza, non c’è spazio per invocare l’area di non punibilità tracciata dalle Sezioni Unite. Resta ferma la tipicità del reato di coltivazione di stupefacenti, che peraltro, sul piano dell’offensività, è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediato, purché le piante siano conformi al tipo botanico e idonee, per modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre droga.
Le esigenze cautelari
Sul fronte delle esigenze cautelari, il Tribunale ha ravvisato il pericolo di reiterazione del reato, richiamando le modalità organizzate della coltivazione e l’assenza di una stabile attività lavorativa lecita da parte dell’indagato. La difesa, secondo la Cassazione, non si è confrontata davvero con questi passaggi motivazionali: si è limitata a contestare in modo generico il ragionamento dei giudici del riesame, senza individuare veri profili di illogicità manifesta. Anche su questo versante, dunque, i motivi sono dichiarati inammissibili.

