Diciotto società e un piano d’investimento per decine e decine di milioni di euro che avrebbe dovuto creare sviluppo e occupazione sulla costa jonica cosentina, ma vent’anni dopo non restano che capannoni vuoti e capitali spariti nel nulla
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Diciotto società e un programma di investimento per circa settanta milioni di euro, soldi che avrebbero dovuto creare sviluppo e occupazione nella Piana di Sibari. Accadeva nel 2002, ma otto anni più tardi solo una di queste aziende aveva avviato la produzione. Morale della favola: del caso iniziò a occuparsi la magistratura. Di quei settanta milioni, infatti, quaranta provenivano dal contributo pubblico. Quaranta milioni, per fortuna erogati solo in parte, ma tanto bastò per far sì che quello che sembrava un sogno, iniziasse ad assumere i contorni di una delle più colossali truffe compiute ai danni dello Stato.
È questa in pillole la storia del consorzio Procal, nato a dicembre del 2002 con l’obiettivo di realizzare un distretto industriale nell’area sibarita, ma rivelatosi poi una manna per “prenditori” di varia estrazione (slavi, romeni, tedeschi), tanto da spingere gli investigatori a immortalare l’inchiesta con un nome evocativo: “Senza frontiere”.
Ma dicevamo, le aziende. La Routec, ad esempio, avrebbe dovuto sfornare navigatori per barche, mentre le attrezzature sanitarie erano il settore battuto dalla Curatec. Di prodotti elettrici doveva occuparsi Condutec e di antifurti la Protec. In tutti i casi, il suffisso «-tec » stava a indicare l’alto livello di tecnologia impiegato nella produzione. Oltre cinquecento le unità lavorative, coinvolte in un progetto che sarebbe dovuto entrare in fase attuativa già nel 2006, ma che due anni dopo era ancora fermo al palo.
«Colpa delle pastoie burocratiche», come si leggeva in una nota stampa diramata all’epoca dal consorzio. E invece, pochi mesi più tardi, sarebbe emerso che metà delle aziende consorziate, non avevano neanche impiantato il capannone. La successiva vicenda giudiziaria sarà costellata da condanne e patteggiamenti, tra cui quello di Frank Rizzo, imprenditore italo-tedesco che, con le sue accuse di concussione mosse contro Franco Pacenza, aveva innescato, ad agosto del 2006, l’arresto dell’allora consigliere regionale dei Democratici di sinistra.
Pacenza venne poi prosciolto da ogni accusa, mentre Rizzo fu condannato insieme a una pletora di suoi connazionali, ritenuti corresponsabili della truffa. Il capitolo relativo alle due aziende è esemplare perché dimostra quanto fosse facile in quegli anni, fare i furbi con la legge 488. Bastava metter su due capannoni sgangherati con una statua di Padre Pio al centro del piazzale e il grosso del gioco era fatto.
Nelle intenzioni, invece, il compito della Sensitec avrebbe dovuto essere quello di produrre sensori per i contatori del gas, mentre Printec si presentava come un’azienda specializzata nella produzione di materiale da cancelleria. Questo, solo sulla carta. Perché nella pratica, entrambe non erano mai entrate in funzione. Gli imprenditori, infatti, avevano messo in piedi i capannoni attraverso un giro di fatturazioni false o inesistenti, provvedendo poi all’acquisto di macchinari fatiscenti, ma fatti passare per nuovi. Quindi avevano incassato i soldi, senza mai avviare la produzione e riuscendo a eludere agevolmente i controlli del ministero delle Attività produttive e di “Interbanca spa” di Milano, l’istituto di credito concessionario.
Printec e Sensitec, uno scherzetto costato sei milioni e mezzo di euro. Soldi prelevati dalle casse dello Stato e mai più restituiti, malgrado le condanne inflitte in tribunale. Che fine abbia fatto quel denaro, è una domanda destinata a soffiare nel vento. L’inchiesta della Procura di Cosenza, infatti, aveva scoperchiato il pentolone della truffa quattro anni dopo l’erogazione del finanziamento milionario. E così, con ogni probabilità, i quattrini sono stati messi “al sicuro” su qualche impenetrabile conto estero. E il sogno industriale sibarita? Svanito nel nulla, proprio come i capitali. Restano però i fabbricati, disseminati qui e là, tra aranceti e mandarini, a futura memoria. E una statua di Padre Pio, nel frattempo divenuto santo, a fare da totem. Simbolo di devozione e, suo malgrado, di impunità.