L’ex Diritto e Medaglione è tornato in carcere otto mesi fa dopo la condanna per il duplice omicidio Lenti-Gigliotti, luci e ombre di una collaborazione con la giustizia che ha fatto epoca
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Un’esistenza scandita da delitti, estorsioni e rapine, prima della svolta che, a partire dal 1995, lo consegna agli annali come il pentito più importante della ‘ndrangheta cosentina, forse calabrese. Un primato che trent’anni dopo, Franco Pino può ancora rivendicare per sé, anche se, da otto mesi a questa parte, la sua cattiva stella è tornata a splendere su di lui. Dal 10 gennaio del 2025, infatti, l’ex boss è tornato dietro le sbarre per scontare otto anni di carcere per un duplice omicidio dei suoi anni ruggenti. Una condanna che gli è piovuta addosso in modo del tutto inaspettato e che, probabilmente, neanche meritava. Ma tant’è.
C’è stato un tempo in cui proprio lui, Compà Franco – come lo chiamavano amici e nemici – determinava buona parte della vita sociale della città, la faceva da padrone nel racket dei lavori pubblici, era interlocutore privilegiato della ’ndrangheta reggina, della camorra di Raffaele Cutolo e persino dei Corleonesi. Un superboss che non esiste più, rimpiazzato dal collaboratore di giustizia che da trent’anni a questa parte, calca le scene processuali più importanti d'Italia. E anche se quel tempo è ormai passato, la giovinezza andata e il potere perduto, un lampo di occhi azzurri che trapela dai video, durante la sua ultima apparizione in tribunale datata 24 giugno 2019, sembra unire idealmente, per un'ultima volta, ciò che è stato con ciò che è ancora oggi.
Quel giorno, dietro il paravento installato nell’aula di Corte d’assise c'era sempre Franco Pino, l'ex diritto e medaglione; ancora nascosti, invece, ci sono alcuni segreti dei quali è depositario, specie in termini di abbracci “pericolosi” con politici, magistrati o pubblici ufficiali della sua epoca. È uno dei capitoli più oscuri del pentitismo cosentino quello dei rapporti tra l'ex superboss e la cosiddetta zona grigia, al quale, prima di morire, ha fatto riferimento il suo avvocato Vittorio Colosimo, evidenziando con toni polemici come le dichiarazioni rese dal suo cliente sui temi più scottanti siano state tirate fuori «solo a sprazzi» o quando i reati in questione «erano ormai prescritti».
Il risultato è che oggi Pino è ancora uno dei pentiti più importanti sullo scacchiere giudiziario nazionale, convocato come testimone in numerosi maxiprocessi di grido, compreso quello sulla presunta trattativa Stato-Mafia, ma nella sua Cosenza, gli unici a essere inguaiati dalle sue rivelazioni sono stati l'ex sindaco Giacomo Mancini, poi prosciolto dalle accuse, e l'esponente socialista Pino Tursi Prato. Un po' poco per chi come lui aveva la pretesa di detenere un potere criminale pressoché assoluto, ma che si tratti di un demerito suo o di altri, questa è una storia ancora da scrivere. Trent’anni dopo.
Se è tornato in carcere, lo si deve a un processo che proprio lui ha contribuito a istruire con le sue confessioni. Si tratta del duplice omicidio di Marcello Gigliotti e Francesco Lenti avvenuto nel 1986 e di cui Pino è stato ritenuto mandante. Uno dei crimini più efferati avvenuti all’epoca da cui il diretto interessato ha sempre preso le distanze. Anzi, riguardo a Gigliotti, il vero obiettivo dei sicari, il ruolo che rivendica per sé un ruolo decisamente diverso: «Credo di avergli allungato la vita di qualche mese»
Marcello Gigliotti, 25 anni all’epoca della morte, si muoveva a cavallo tra gli ambienti criminali e quelli del neofascismo cosentino. «Veniva da Avanguardia nazionale – ha sostenuto Pino durante il processo - parlava sempre di stragi, di terrorismo. È diventato un criminale per caso». Con lui, il boss aveva stipulato un accordo: «Gli lasciavo campo libero su tutto, rapine incluse. Tanto lui non era interessato ai soldi, gli servivano solo per autofinanziarsi. A lui piaceva l’azione. Passava tutto il giorno a girare per la città su un motorino “Ciao” e andava in cerca dei miei nemici. Come ne vedeva uno gli sparava addosso. Ne avrà fatte decine di queste azioni».
La prima azione eclatante risale al 1980, il biglietto da visita di Gigliotti è proprio un raid come quello descritto da Pino, con obiettivo uno degli arcinemici dell’epoca: Carlo Rotundo, il contabile del clan Perna. «Andò in piazza Piccola a volto scoperto e fece fuoco contro Rotundo che, però, era nella sua auto e Gigliotti non sapeva che fosse un’auto blindata». Due anni dopo, ancora lui si spinge a posizionare una bomba davanti alla vecchia questura di via Guido Dorso che solo per una fortunata coincidenza, non culmina in una strage. Ignote le cause scatenanti del gesto: forse suggestioni politiche o forse la vendetta per uno schiaffo ricevuto da un poliziotto.
Il primo febbraio del 1986 Gigliotti e Lenti sono uccisi e fatti a pezzi dai loro stessi compagni d’arme. La loro natura di cani sciolti - «anime libere» li definisce Franco Pino - li rende invisi a tutti, anche per una serie di passi falsi compiuti nel giro di pochi mesi. Uno su tutti: inimicarsi il vecchio padrino Antonio Sena.
In quel periodo, infatti, un importante notabile cosentino subisce una rapina sua abitazione - un episodio cruento che passa anche da donne e bambini tenuti in ostaggio sotto minaccia delle armi - e si reca da Sena pregandolo di recuperare i beni trafugati. Nell’ambiente, circola voce che a eseguire il colpo siano stati Lenti e Gigliotti. Il padrino li convoca entrambi, ordinando loro di restituire il maltolto.
Per il boss, è una questione di prestigio, ma i due camorristi, per nulla intimoriti, rispondo- no picche. Secondo Pino è la goccia che fa traboccare il vaso. «Sena ce l’aveva a morte con loro anche per altri motivi» spiega l’ex boss. A novembre del 1985, infatti, Gigliotti, uccide il cognato di Carmine Pezzulli – «crimine per il quale sarà poi condannato l’innocente Francesco Masala» – per ragioni collegate alla ricettazione di alcuni gioielli e, come se non bastasse, «andava a dire in giro che avrebbe ucciso pure Ferdinando Vitelli perché gli insidiava la moglie».
All’epoca, il crimine cosentino è in piena evoluzione. I due clan un tempo contrapposti (Pino- Sena da un lato, Perna-Pranno-Vitelli dall’altro) sono pronti a stipulare la pace, in vista dell’avvento dei grandi appalti da spartire in armonia e senza più spararsi addosso. È in questo contesto che Sena avrebbe trovato gli elementi utili per compiere la propria vendetta. In quel periodo Pino si trova in carcere e, a suo dire, Don Antonio persuade i ragazzi a lui più vicini che quel Gigliotti lì, rappresenta un pericolo. «Questo ci fa tornare di nuovo in guerra, va fermato». Su di lui, inoltre, circola un’altra brutta voce: che registra dei nastri in cui elenca i crimini commessi negli anni, facendo i nomi anche dei suoi complici. «Un’altra falsità» secondo Pino, ma tant’è: in virtù di ciò, si stabilisce di farla finita con lui. «Lenti non doveva morire. Tante volte abbiamo ucciso qualcuno e liberato altri che non c’entravano nulla. Quel giorno però non è andata così».
Il processo ha appurato che, quel giorno d’inizio febbraio, Marcello e il suo amico vengono attirati nella campagna Rende in una trappola mascherata da pranzo a base di frittole. Le circostanze della loro fine, Pino sostiene di averle apprese una volta uscito dal carcere, dagli stessi autori del massacro: Lenti ucciso quasi subito, con una fucilata a bruciapelo, Gigliotti immobilizzato e costretto ad assistere al macabro spettacolo della decapitazione del suo amico. Lo interrogano per chiedergli conto di quelle registrazioni, lui nega ma questo non è sufficiente a salvargli la vita. Uccidono anche lui e poi si sbarazzarono dei corpi seppellendoli sulla montagna di Falconara.
«Pochi mesi prima, Gigliotti mi aveva confermato la sua intenzione di uccidere Sena, ma gli feci cambiare idea. I due si strinsero la mano davanti a me, ma credo che per Sena ormai fosse una decisione presa. Avrei potuto impedirlo? No, anche perché stavo in carcere per una condanna definitiva a 15 anni, mentre là fuori il mio gruppo stava facendo la pace con i nemici e io ero escluso da tutte le trattative. Senza soldi, senza famiglia criminale a coprirmi le spalle, non ero nelle condizioni di oppormi a nessuno. Ecco perché l’ultima volta che vennero a parlarmi di Gigliotti dissi loro: fate come volete».