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Quella di Salvatore Di Cicco alias “Turuzzu” oppure “Sparami in pietto”, non è solo la storia triste di una vittima di lupara bianca, ma anche la parabola di un uomo che vive i suoi ultimi giorni di vita assediato da sospetti e diffidenze, un cerchio che man mano si stringe attorno a lui fino a stritolarlo. I suoi compari, infatti, lo ritenevano un informatore dei carabinieri. E chi aveva fatto loro questa confidenza? «Altri carabinieri» suggeriscono ventidue anni dopo i pentiti Nicola Acri e Ciro Nigro. Secondo loro, dietro la condanna a morte di Turuzzu ci sarebbero anche queste spiate. Non una, bensì molteplici.
Prima di essere marchiato come un traditore, Di Cicco è quello che si suol dire un “pezzo grosso” del clan dei nomadi di Cassano. Si fa largo poco alla volta, passando dal traffico di droga alle estorsioni, settori in cui riveste un ruolo quasi dirigenziale dopo averne esercitato uno da militante. Viene dalla gavetta insomma, ma di sé stesso ama dire di aver fatto una scalata criminale «salendo i gradini a quattro a quattro». Già all’epoca, però, all’interno del gruppo c’è chi lo invita a essere guardingo: «Attento che prima o poi li scenderai a quattro a quattro». Si rivelerà buon profeta.
I suoi guai cominciano il 16 maggio del 2001, quando partecipa all’omicidio di Vincenzo Bloise, vicenda per la quale quattro anni dopo sarà condannato all’ergastolo, seppur solo alla memoria. Il fuoristrada di Di Cicco è impiegato dai sicari nella fase degli appostamenti, ma subito dopo l’agguato, a detta di Acri, avviene il patatrac. «Eduardo Pepe – racconta “Occhi di ghiaccio” – viene a sapere che Di Cicco era intercettato, che sulla macchina c’erano le microspie». A informare Pepe, in quell’occasione, sarebbe stato qualche «carabiniere di Cassano e Corigliano», caserme in cui il boss – caduto l’anno successivo in un agguato di mafia – aveva dei contatti.
La notizia semina il panico all’interno dell’organizzazione e adombra la figura di Di Cicco. Tuttavia, è un’altra confidenza a renderlo totalmente inaffidabile agli occhi dei complici. Sempre le stesse talpe in divisa, infatti, avrebbero informato Pepe di contatti già in corso tra Di Cicco e i loro colleghi, con quest’ultimi in pressing per convincerlo a collaborare con la giustizia. A quel punto, spiega Acri, si sarebbe deciso di farla finita con lui. E non solo. Ciro Nigro aggiunge un’altra chiacchiera pesante sul suo conto: che nel 2000, sempre da “Sparami in pietto” parte la soffiata che porta poi all’arresto del boss Franco Abbruzzese, allora latitante nelle campagne di Cassano.
Che fossero sospetti veri oppure infondati, non è dato saperlo. L’unica certezza è a bordo dell’auto di Turuzzu, il 16 maggio del 2001, le cimici c’erano per davvero dato che, in quel periodo, anche lui era indagato nell’ambito dell’inchiesta “Sybarys”. In particolare un’intercettazione, coeva al delitto Bloise, registra la presenza nell’abitacolo di Peppe Spagnolo “U banditu”, dei defunti Pepe e Fioravante Abbruzzese e di una «persona non identificata di sesso maschile con accento della zona a sud di Rossano». Quell’uomo era Nicola Acri, circostanza che da pentito lui stesso ammetterà anni dopo. «Cioè li hanno intercettati mentre parlavano, io ero dentro la macchina e stavo zitto. A chidhi scienziati gliel’avevo detto: “Viditi che è capace che c’è qualcosa”».