Trentasette anni tra errori nelle indagini, omertà e speranze tramontate. Il cold case della ragazza di Rende uccisa in maniera bestiale a Falconara Albanese è (anche) un tuffo in una Calabria che faticava ad accettare l’emancipazione femminile. Perché non possiamo smettere di ricordare questa storia
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Spesso mi viene voglia di raccontare storie che hanno lasciato un segno nella mia vita e in quella dei miei luoghi. Oggi vi porto indietro di 37 anni, all’estate del 1988. Avevo 19 anni, e la Calabria era una terra di sogni e di ombre. È l’estate in cui Roberta Lanzino, una ragazza di Rende, fu strappata alla vita. La sua storia mi ha colpito come un pugno nello stomaco, e ancora oggi, ogni anno d’estate, non riesco a smettere di pensarci. È un cold case che parla di violenza, di giustizia negata e di una Calabria segnata da contraddizioni.
Rende e Cosenza, il sogno di libertà
Immaginate Rende, una cittadina alle porte di Cosenza, nell’estate del 1988. Il sole brucia la pelle, l’aria è densa di calore, e le strade si svuotano in estate e nelle ore più calde. Rende era un mix di vecchio e nuovo: da una parte, il centro storico con le sue viuzze strette e le case in pietra; dall’altra, la città che si stava sviluppando a valle con l’Università della Calabria, un campus moderno che attirava giovani da tutta la regione. Io ero uno di loro, uno studente di 19 anni con sogni grandi e il desiderio di andarmene, almeno per un po’, da una Calabria che a volte mi sembrava troppo stretta.
Roberta Lanzino studiava Economia e Commercio, aveva i capelli castani, un sorriso che illuminava e una vitalità che tutti notavano. Non la conoscevo di persona, ma a Rende e all’Unical, in quegli anni ci si conosceva tutti, almeno di vista. Il 26 luglio 1988, Roberta decise di andare alla casa di famiglia a Miccisi, una frazione di San Lucido, un paesino sulla costa tirrenica. Immaginate la scena: una strada costiera che si snoda tra colline verdi e scorci di mare, con il profumo di salsedine nell’aria. Roberta salì sul Piaggio ‘Sì’ di suo fratello, un motorino leggero, perfetto per quelle strade tortuose. I suoi genitori, Franco e Matilde, la seguivano in macchina, ma si fermarono lungo il tragitto per comprare un’anguria da un venditore ambulante e prendere un po’ d’acqua a una fontanella. Gesti quotidiani, che però cambiarono tutto nella loro vita.
Quando la notizia della sua scomparsa si sparse, fu come se il tempo si fosse fermato. Ero con amici, forse in un bar, quando qualcuno disse: “Hanno trovato un motorino in una scarpata”. Sentii un brivido. Alle 2 di notte, i carabinieri confermarono che era il motorino di Roberta, abbandonato lungo la strada vecchia per Falconara Albanese, una via isolata, circondata da ulivi e cespugli selvatici. Roberta, però, non c’era.

La scoperta e l’orrore. La strada per Falconara
Il mattino del 27 luglio, arrivò la notizia che spezzò il cuore di Rende e Cosenza, ma anche quello dei paesini del circondario. A pochi metri dal motorino, in un boschetto lungo quella strada desolata, i carabinieri trovarono il corpo di Roberta. Era stata aggredita, violentata, massacrata. Aveva circa 50 ferite, una caviglia slogata, le spalline della camicia conficcate in gola per soffocare le sue urla. Un taglio di 15 centimetri alla gola l’aveva uccisa. L’autopsia parlò di una violenza “animalesca”. Io leggevo i dettagli sui giornali, e le mani mi tremavano. Roberta aveva la mia età. Poteva essere una mia compagna, un’amica. Era una di noi.
Quella strada per Falconara Albanese è un luogo che non dimenticherò mai. È una striscia d’asfalto stretta, tortuosa, che taglia colline coperte di macchia mediterranea, ma anche pezzi di bosco della Crocetta. Da una parte, il verde di castagni e faggi e poi, più in basso, dei fichi d’India; dall’altra, il mare che luccica in lontananza. Ma quel giorno, quel boschetto, un groviglio di rovi e alberi bassi, divenne il teatro di un orrore. Ancora oggi, se faccio quella strada, sento un peso. È come se quel luogo portasse ancora il segno di ciò che è successo, come se il vento raccontasse la storia di Roberta.
Non lontano, il Monte Cocuzzo, il punto più alto della Catena costiera, domina il paesaggio. Qui, guarda caso, secondo quanto documentato da Giovanni de Giacomo, scrittore originario di Cetraro e pioniere degli studi sul folklore calabrese a cavallo tra il XIX e il XX secolo, si svolgeva un’antica e controversa pratica nota come Farchinoria, un rituale notturno praticato dai pastori sulle pendici del monte. Un’orgia che coinvolgeva i pastori e le loro pecore, in un contesto di isolamento sociale e privazione.
La violenza contro Roberta non fu solo un crimine. Riflette qualcosa di più profondo, radicato nella Calabria degli anni ’80. Era una società patriarcale, dove le donne, soprattutto giovani, erano viste come vulnerabili. Roberta, su quel motorino, rappresentava una libertà che forse qualcuno non poteva “tollerare”. Antropologicamente, la sua morte sembra un monito: una punizione per una ragazza che osava muoversi da sola, in un contesto dove l’autonomia femminile era percepita come una sfida. L’omertà che avvolse il caso, con prove perse e indagini bloccate, riflette una cultura del silenzio tipica di una regione dominata dalla ‘ndrangheta, dove denunciare significava rischiare.
Indagini fallimentari e l’ombra della ‘ndrangheta
Le indagini sul caso Lanzino furono un disastro. Seguivo tutto dai giornali e dai racconti di chi aveva contatti con i carabinieri. La scena del crimine non fu preservata: i vestiti di Roberta – pantaloni, scarpe, biancheria – sparirono subito. La maglietta e il reggiseno, ritrovati anni dopo per caso, furono distrutti da un perito. Le tracce biologiche, come il liquido seminale, si degradarono dopo essere state inviate in vari laboratori, persino in Inghilterra. A 19 anni non capivo molto di indagini, ma sentivo che qualcosa non tornava. Era come se qualcuno volesse insabbiare la verità.
I primi sospettati furono tre pastori locali. Uno di loro ammise di aver dato indicazioni a Roberta, ma il suo comportamento venne ritenuto sospetto. Nel 1991, il Dna li scagionò. Ricordo il sollievo misto a frustrazione: se non erano stati loro, i pastori, chi era stato? La Calabria di allora era un luogo complesso. La ‘ndrangheta dominava, e alcune istituzioni di giustizia erano chiacchierate come posti dove le verità si dissolvevano. Antropologicamente, questa omertà rifletteva una cultura della paura, dove sfidare i poteri forti era un rischio mortale.
Nel 2007, quando avevo 38 anni, il caso si riaprì. Un pentito di ‘ndrangheta disse che i responsabili erano: un uomo scomparso nel 1989 e un pastore già condannato per altri omicidi. Secondo il pentito, l’omicidio di Roberta era legato a una rete di crimini mafiosi, e l’uomo scomparso, che forse voleva parlare di questo caso, fu eliminato con una lupara bianca. Io leggevo queste notizie e pensavo: “Possibile che sia tutto così intrecciato?”. Ma nel 2015, un’analisi su un campione di terriccio misto a sangue e sperma scagionò entrambi. Nel 2017, la Corte d’Appello di Catanzaro li assolse. Un altro vicolo cieco.
Un DNA senza nome e una Calabria in transizione
Oggi, il caso Lanzino rimane irrisolto. Esiste un profilo genetico, chiamato “Ignoto 1”, estratto dal terriccio sotto il collo di Roberta, ma nessuno è riuscito a collegarlo a un sospettato. L’avvocata della famiglia denuncia che le indagini sono ferme, come se la verità fosse troppo scomoda. La Calabria in cui sono cresciuto era una terra di bellezza e di ombre. Le sue coste, come quella di San Lucido, erano paradisi di mare turchese e spiagge dorate, ma le sue colline e i suoi monti nascondono segreti. La ‘ndrangheta, la criminalità organizzata, era ovunque, anche se invisibile, e il suo controllo alimentava il silenzio.
Il caso Lanzino ci parla di una Calabria in transizione. Negli anni ’80, la società era profondamente maschilista. La violenza di genere, come quella subita da Roberta, era un problema taciuto, normalizzato da un sistema che vedeva le donne come oggetti di controllo. Roberta, su quel motorino, era un simbolo di emancipazione: una ragazza che studiava, che si muoveva liberamente. La sua morte sembra gridare un messaggio di dominio. E l’omertà che ha avvolto il caso è il riflesso di una cultura dove la paura di parlare era più forte della giustizia.
Si discute se sia stato un femminicidio. L’Istat non lo classifica così, mancando un legame familiare o sentimentale, ma per me lo è. Roberta fu punita per essere se stessa, in un mondo che non era pronto ad accettarla.
Un faro nella notte
Franco e Matilde Lanzino, i genitori di Roberta, hanno trasformato il loro dolore in azione. Nel 1989 fondarono una Fondazione dedicata a Roberta, che gestisce centri antiviolenza come “L’Orizzonte” e “La Bussola”, rifugi per donne e minori vittime di abusi. Ho ascoltato Franco e Matilde a un evento della Fondazione, anni fa, in un palazzo antico del centro storico di Cosenza, e nei loro occhi ho visto una forza che non dimenticherò mai. Franco è morto nel 2022, ma Matilde continua a lottare, tenendo vivo il ricordo di Roberta.
Ogni tanto passo da quella strada per Falconara Albanese. È ancora lì, con i suoi rovi, il suo silenzio. Penso a Roberta, a come sarebbe oggi, magari con una famiglia, una carriera. Penso a quel motorino, a quel giorno d’estate. La Calabria è cambiata: l’Università è cresciuta, le strade sono più moderne, ma le ombre del passato rimangono. La Fondazione dedicata a Roberta è un faro, ma la giustizia per lei è ancora lontana.
Non so se scopriremo mai chi è “Ignoto 1”. Non so se la verità verrà a galla. Ma so che non possiamo smettere di ricordare Roberta. La sua storia è la mia storia, la nostra storia. È un monito: quando il silenzio vince, la giustizia perde.
*documentarista