Poco dopo che Charlie Kirk è stato assassinato, decine — forse centinaia — di post sui social media hanno iniziato a circolare nella rete, alcuni addirittura celebrando la sua morte. Questo flusso di contenuti è stato rilevato non solo da media e organi tradizionali, ma anche da attivisti conservatori, rappresentanti del Partito Repubblicano e piattaforme online che chiedono responsabilità per chi diffonde messaggi di questo tipo.

Tra queste realtà, emerge il sito Charlie’s Murderers che si definisce - con i propri slogan - come strumento per licenziare in massa chiunque abbia espresso un’opinione considerata non consona sulla morte dell’attivista.

«Invia informazioni su chiunque festeggi la morte di Charlie – si legge -. Questo sito web sarà presto convertito in un database consultabile di oltre 30.000 contributi, filtrabili per località e settore lavorativo. Si tratta di un archivio permanente e in continuo aggiornamento di attivisti radicali che invocano la violenza.

C’è anche un’affermazione che colpisce: “Si tratta della più grande operazione di licenziamento della storia.”

Secondo quanto riportato da CNN, l’idea alla base di queste piattaforme - incluse le campagne su X/Twitter e altrove - è quella di segnalare pubblicamente persone che abbiano scritto post considerati offensivi, che “celebrano” la morte di Kirk o “sostengono la violenza politica online”. Alcuni dei post sono stati prodotti da account con decine di follower, altri da persone non note al pubblico, ma il fatto che molti siano stati raccolti, riconosciuti e, in certi casi, rilanciati ha prodotto un impatto considerevole.

Ci sono stati casi concreti di conseguenze professionali: dipendenti universitari, insegnanti e lavoratori pubblici che sono stati sospesi, investigati o addirittura licenziati in seguito alla diffusione dei loro post. Non sempre però i contenuti promuovono la violenza in modo esplicito; in molti casi si tratta di insulti, espressioni aggressive o frasi provocatorie. Ma proprio la natura virale, la facilità di diffusione e la permanenza online fanno sì che messaggi anche “minori” possano portare a danni reali.

La CNN riporta testimonianze di persone coinvolte che dicono di aver ricevuto minacce, molestie, messaggi intimidatori in seguito alla pubblicazione dei loro profili o screenshot. Alcune temono che le informazioni personali rese pubbliche possano esporle a rischi più gravi, non solo sociali ma anche di sicurezza personale.

Tra le figure pubbliche coinvolte, ci sono anche giornalisti, influencer e accademici. Alcune aziende private hanno preso provvedimenti disciplinari nei confronti dei dipendenti identificati. Alcune università o istituzioni pubbliche stanno valutando se agire nei confronti di insegnanti che hanno scritto commenti controversi dopo l’omicidio.

Il dibattito che ne è derivato riguarda più che altro il confine tra libertà di espressione e responsabilità online: quando un post diventa oggetto di scandalo pubblico, quanta responsabilità può avere l’autore se era in uno stato emotivo intenso? E quanto è giusto che vengano diffuse informazioni su persone che magari non avevano grande visibilità o che non avevano intenzioni di andare “in prima pagina”?

Infine, molti osservatori sottolineano che queste campagne, pur nate con l’obiettivo di punire i post celebrativi o che incitano alla violenza, possono a loro volta generare un clima di autocensura, di paura, soprattutto per chi è meno avvezzo ai media e agli occhi del pubblico.