Un tempo fucina di pensiero critico, lotte e creatività condivisa, oggi Cosenza appare svuotata, prigioniera di nostalgie e apparenze. Ma grazie a poche realtà resistenti, resta accesa la speranza di una città che possa ritrovare sé stessa, tornando ribelle, inclusiva e autentica
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C’era una volta una città che si faceva chiamare l’Atene della Calabria. Non per vanità, ma per eredità. Era la città di Bernardino Telesio, pensatore eretico e antesignano della libertà del pensiero. Una città che sapeva essere colta e ruvida, popolare e visionaria, civile e sovversiva. Io c’ero. Ricordo tutto.
Ricordo quando, il 23 novembre del 2002, sessantamila persone sfilarono per le strade di Cosenza per gridare che l’Italia non poteva arrestare chi protestava contro l’ingiustizia e la globalizzazione. Era il tempo delle ferite ancora aperte del G8 di Genova. Una stagione in cui bastava poco per essere considerati “pericolosi”: un tamburo, una bandiera, uno slogan. In quella città, invece, si scendeva in piazza come se fosse un dovere morale. E si gridava insieme: “Siamo tutti sovversivi.”
In quella giornata, quella città divenne un riferimento. L’epicentro di un terremoto che scosse l’intera Italia ammutolita.
Ricordo poi un’altra storia, fatta di sorrisi e colori. Il primo gay pride di Cosenza. Una città che si tingeva d’arcobaleno e si lasciava contaminare dalla gioia di chi, per troppo tempo, era stato spinto a nascondersi. Quella mattina, quel pomeriggio, quella sera, in strada non c’erano più segreti: c’erano persone, corpi e anime. C’erano musica e amore che non chiedevano permesso.
E ricordo - eccome se ricordo – quando Matteo Salvini osò mettere piede in quella città. Gli risposero con cartelli, cori, passi di protesta. “Cosenza non si Lega”, si diceva. Ma non era solo uno slogan: era un’identità. L’accoglienza, da quelle parti, era pane quotidiano. E lo è ancora, a dispetto di chi la vorrebbe cancellare dal vocabolario della politica.
Questa era Cosenza. Era la voce di Ciroma, la radio che alzava il volume del pensiero critico. Erano gli ultrà del Cosenza, che prima ancora di tifare, lottavano. Perché da noi una partita non durava novanta minuti: si giocava prima e dopo, fuori e dentro il campo, dalla parte degli ultimi. E poi c’erano le Invasioni.
Un nome, una visione. Un progetto culturale nato dalla mente irrequieta e brillante di Franco Dionesalvi. Le strade si accendevano come in un secondo Natale: le piazze respiravano, la città vecchia si riempiva di dibattiti, di musica, di corpi che si incontravano. Passarono di lì Lou Reed, i Marlene Kuntz, Caparezza, Subsonica, Africa Unite e tanti altri. Ma soprattutto, passò l’idea che la cultura potesse davvero essere di tutti. Che potesse essere un rito collettivo. Un atto d’amore, e di disobbedienza. Poi è arrivato il silenzio. Prima della musica, poi nei teatri.
Prima l’indifferenza e la paralisi dell’amministrazione Perugini. Poi lo scempio - sì, lo scempio – di quella targata Occhiuto. Una desertificazione culturale sistematica. Un colpo di spugna dato con premeditazione. Come se quella città dovesse vergognarsi del proprio passato, come se dovesse diventare “altro”: più lucente, più ordinata, più instagrammabile. Ma finta. Completamente finta.
Quello stesso deserto culturale che oggi si sta propagando in tutta la regione. E adesso cosa resta di questa città? Adesso resta la scenografia. Una parodia. Le “Invasioni” sono state rispolverate come si fa con un vecchio nome che non si ricorda neanche più a cosa servisse. Nessuna narrazione. Nessun racconto. Nessun sogno. Solo un’operazione nostalgia, con poco o senza sentimento. Una toppa cucita male su una città che nel frattempo ha perso il senso stesso di sé.
L’amministrazione Caruso riesce nell’impresa di sabotare sé stessa: lavori pubblici nel centro storico proprio nei giorni del festival, problemi per le attività commerciali, e nessuna comunicazione strategica. Un festival troppo timido, che non crea comunità. Cosenza oggi è una città disorientata, ferita e senza una sua identità.
Non più luogo di fermento, ma di esclusione. Dove le iniziative culturali – salvo lodevoli eccezioni – non sono patrimonio collettivo, ma riti di club. Se fai parte del gruppo, puoi accedere attivamente e portare il tuo contributo. Altrimenti, puoi solo guardare. Magari da lontano. Forse neanche quello. Una città che non costruisce più cultura, ma posizionamenti. Un luogo dove la gerarchia ha sostituito il desiderio. Dove la fede si chiede, anzi si pretende, ma senza alcuna liturgia dell’anima. Io non sono credente, ma se avessi voluto aderire ad un culto, sarei andato in chiesa. Non a fare il fedele in club per una rassegna culturale.
Woody Allen - che amo – diceva: “Non vorrei mai far parte di un club che accetterebbe uno come me tra i suoi membri”. Ecco, oggi la cultura a Cosenza sembra un club di questo tipo. Un luogo chiuso, autoreferenziale, in cui si recita a soggetto per pochi eletti, senza volgere lo sguardo alla collettività. Non importa la partecipazione, non conta la condivisione. Conta solo che le cose “si facciano”. E così, ieri sera, sono andato lo stesso alle “Invasioni”.
Ho attraversato la “Villa Vecchia”, protagonista di costosi lavori che non ho potuto ammirare perché sprovvisto di lente d’ingrandimento o di microscopio. All’uscita si apriva la piazza, sempre bella e affascinante. Sul palco Samuel Romano, lo stesso di vent’anni fa. Stessa voce, stesso carisma. Ma tutto il resto era cambiato. Nessuna folla. Pochissima gente. Un evento svuotato, collocato malamente nel calendario e nell’orario, come se fosse un dovere da sbrigare, non un appuntamento da vivere e da far vivere.
Fuori, la domenica di fine luglio – nonostante il tempo non fosse dei migliori – spingeva la gente verso la costa per il solito spettacolo: selfie sulle spiagge e sui gommoni scambiati per yacht, cocktail plastificati, l’epica dei nuovi finti ricchi da Instagram che va in scena.
E quella volgarità di plastica che si riversa ogni giorno sulla città, che nel frattempo diventa ogni giorno più triste, più sola, più lontana da sé stessa.
Cosa ho fatto allora? Ho chiuso gli occhi. Ho stretto le palpebre fino a sentire dolore, sperando che bastasse quello per tornare indietro. Per ritrovare la città che conoscevo, che sognava, che lottava, che faceva dell’estate (e non solo) una poesia collettiva.
Ho provato a resistere come fanno i superstiti, quelli che non vogliono dimenticare. E quando li ho riaperti, ho incrociato altri sguardi. Simili al mio. Sguardi di chi forse vive altrove, ma continua a portarsi dietro l’eco di quella città disobbediente. Oppure di chi è rimasto, e prova ogni giorno a resistere all’oblio, a non cedere alla resa.
A me stesso, a tutti loro, a tutti noi, vorrei dire solo una cosa: la cultura non è un titolo di rendita. È un atto continuo. Un gesto di comunità, di coraggio, di creazione. E se Cosenza vuole salvarsi, dovrà ricordare da dove viene. E riscoprire il verbo che un tempo l’ha resa grande. Disobbedire.
Ma disobbedire oggi significa anche smettere di credersi qualcosa che non si è mai stati. Smettere di inseguire il miraggio di essere un grande centro, mentre si scivola nel provincialismo più becero e kitsch: fatto di inchini e riverenze, di selfie con bottiglie sciabolate, di gommoni che si credono grandi barche, di ristoranti e locali che scimmiottano Milano o la Costa Smeralda con la grazia di una ridicola e goffa comparsa.
Forse - e sarebbe la vera rivoluzione —-Cosenza dovrebbe imparare a guardare la provincia, e non più dall’alto in basso. Guardare verso il Savuto, ad esempio. Verso la piccola e straordinaria biblioteca di Cuti, che senza clamore costruisce ogni giorno comunità e memoria. Verso Celico e il suo bellissimo festival. Verso Paola, dove una semplice pasta asciutta antifascista riesce a dire molto più di mille post politisci e istituzionali.
Oppure verso quei paesi che non hanno festival patinati ma organizzano iniziative vere, partecipate, senza badge, token né inviti esclusivi. La nuova cultura non si misura in budget o palchi, ma in quanta vita riesce a tenere insieme. In quante persone si sentono parte. In quanti sogni riesce ancora ad accendere. In quanta bellezza riesce a creare, conservare e condividere.
Ecco: forse, per tornare a essere se stessa, Cosenza dovrebbe cominciare da lì. Dalla provincia che non finge. Dalla provincia che costruisce. Dalla provincia che resiste. In silenzio, ma resiste.