Un tratto di autostrada, a Capaci, Sicilia, in pochi secondi ha spezzato tante vite. Qualcuno ha dato l’ordine, qualcuno ha eseguito e ha premuto il pulsante. È bastato un piccolo gesto a spaccare in due il tempo di un Paese fino ad allora spettatore immobile di tante stragi. È bastato un piccolo gesto per uccidere Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, e tre ragazzi della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Tutti giovani, tutti consapevoli che quell’incarico poteva essere pericoloso, che ogni giorno poteva essere l’ultimo. Così è stato per tutti loro il 21 maggio del 1992.

Oltre il lutto, la memoria ha la capacità superare il dolore e mettersi sul dorso del tempo per non farsi schiacciare dalla dimenticanza, può allungarsi a dismisura, diventare spessa, diventare calda come una sciarpa che avvolge i pensieri scuri, li trasforma in qualcos’altro. Così è stato per Tina Montinaro, che non vuole definirsi vedova, ma moglie di Antonino Montinaro il caposcorta di Falcone «perché io continuo a pensare a lui, a dedicarmi a lui, lui per me c’è sempre». Così riesce anche a sorridere tutte le volte che con l’auto passa, e le capita di frequente, in quel tratto di strada che ha inghiottito l’amore della sua vita.

«Sorrido perché è come se lo vedessi lì, in piedi, ad aspettarmi». Questa frase la pronuncia nel documentario Rai “I ragazzi delle scorte” proiettato oggi all’auditorium Guarasci di Cosenza davanti a centinaia di studenti provenienti dai licei “Telesio”, “Fermi”, “Scorza”, “Pitagora”, “Ciliberto” di Crotone, “Nitti Da Vinci”, dalle scuole medie “Fratelli Bandiera” e “Gian Battista Vico”.

La showrunner Giorgia Furlan (42° Parallelo, produttore del doc) ha raccontato la genesi dell’opera e soprattutto l’emozione nel raccogliere una testimonianza così ricca di forza e coraggio, come quella di Tina Montinaro che ha avuto l’idea di richiedere i rottami della tristemente famosa Quarto Savona 15, l’auto su cui viaggiava la scorta di Falcone, per renderla un simbolo da mostrare per raccontare chi erano e cosa hanno rappresentato, un simulacro di una memoria che non vuole sbiadire.

Pif ai nostri microfoni dà un messaggio di speranza: «I calabresi sono persone testarde, nel bene e nel male, e possono risollevarsi. È un ottimismo frutto della mia esperienza personale. La mia Palermo ce l’ha fatta a cambiare. Adesso non è più com’era tanti anni fa, adesso lì si può girare un film senza dover pagare il pizzo, si può aprire un negozio senza pagare il pizzo. La narrazione diversa ha aiutato la città, ma la narrazione la portano avanti le persone stesse che vivono lì, noi portiamo il cambiamento. Certo è che la Calabria è stata letteralmente abbandonata a sé stessa, è stato così per tutto il Sud ma per la Calabria in particolare. Quando mi capita di incontrare ministri o altre persone importanti, gli dico sempre: “Ehy, non vi dimenticate della Calabria”, e lo dico da siciliano. Quello che ci dobbiamo mettere in testa è che solo noi possiamo salvarci, solo noi».