La Fiera di san Giuseppe si trascina dietro un sole incerto ma non il freddo. Appena dai truck, con personale assoldato per l’occasione, sale un nugolo di arie di salsiccia e cipolle arrostite, si tolgono i maglioni e si indossano le magliette (con felpe su da tirare se inizia a sgocciolare). Così è anche ora. Ad aprile. Un mese insolito per la fiera che ha traslocato di un mese con bagagli e bagattelle e pesciolini boccheggianti richiedenti asilo in bocce domestiche. Il venticello trasporta l’odore affumicato dello zucchero nelle ruote d’alluminio che lo renderanno un filante nido che s’attacca ai molari e si dissolve solo con il super sgrassante che si vende poco più in là, “provare per credere”.

Più di 500 espositori (anche se la striscia dei venditori è decisamente più corta degli anni scorsi e la sensazione è quella di una fiera semivuota e in tono minore) in transumanza dopo l’esilio Covid, sono tornati a occupare la strada cosentina con le loro colle magiche, aspirapolveri brevettate dalla Nato, borse “quasi” vere, tradite dall’odore di petrolio contagiato dalle vicine Vuitton e Michael Kors e che si mescolano ai manufatti artigianali di cuoio color biscotto. Il primo è sempre il giorno del rodaggio, aspettando il fine settimana che tira un bacio alla festività del 25 con buona pace delle mamme che si trovano i bimbi a casa per il tradizionale filotto fieristico.

A venti euro il pezzo si fanno rivedere le classiche tajine che fanno il completo con i piatti marocchini, le ciotole per antipasti a forma di mano di Fatima, cocci per fagiolate, pentole e veli per tende color crema da appendere agli anelli. Tutto nella norma. Ciondolistica e perline, lampadari a foggia di giglio opaco, orologi pretestuosi nelle loro arie steampunk, tessuti e tute, sneakers e pezzi di campionario (i più richiesti).

Venti euro (trattabili) anche per gli orecchini di radice di smeraldo della signora elegante, con gli occhialoni da Garbo e i modi da nobildonna, cinque per il panino imbottito in versione base, altri dieci per attrezzini da cucina, gli arancinotti, la spirale che regala fritture avanguardistiche. Tutto il superfluo necessario per riempire i tiretti delle cucine.

«Sessanta euro al paio», dice il padrone del banco delle scarpe, giura con mano sul cuore che quei sandali sono a prezzo stracciato, ché a Napoli le vende quasi al doppio, tirando lo scontrino fino a metà. Patate fritte, arachidi tostate e mele caramellate di un rosso nucleare tra passeggio con un nuovo accessorio per tutti, la mascherina addosso.

Il rivenditore peruviano piacerebbe a Tarantino, ha il solito cappellone a falde ampie e il viso da mocassino tirato dal sole. Nel suo banco tira sempre vento tra gli scacciapensieri di piume verdi, c’è odore di spezia e menta come in un santuario. La lunga strada verso le piante è una lenta processione. E ogni processione ha il suo santo. Il nostro è Giuseppe (anche se in ritardo), protettore dei kebabbari, delle lampade di sale rosa, non vuole inchini ma il riposo su uno dei vimini in fondo.