Centodieci anni di storia e un giorno orribile: il 26 marzo del 2003. Quello, infatti, è il giorno in cui sulla scorta di un sospetto – aver trasformato la società in una «lavanderia del denaro sporco della criminalità organizzata» – le manette si stringono ai polsi dell’allora presidente del Cosenza calcio, Paolo Fabiano Pagliuso. Un’accusa che si rivelerà poi completamente infondata, ma che decreta la fine del calcio professionistico nella città dei Bruzi. A causa di quegli eventi, infatti, la squadra non potrà iscriversi al campionato di serie B e sarà costretta a ripartire dalle serie dilettantistiche.

Oltre al patron, che resterà dietro le sbarre per ben nove mesi, finiscono agli arresti altre dodici persone fra componenti del suo consiglio d’amministrazione e alcuni affiliati delle cosche cosentine. La Procura antimafia dell’epoca dell’epoca li ritiene uniti da un unico disegno criminoso, descritto impietosamente nelle accuse confezionate contro Pagliuso: associazione a delinquere ed estorsione con l’aggravante del metodo mafioso, appropriazione indebita, falso in bilancio, truffa ai danni della Figc e della Covisoc. In più, gli inquirenti lo accusano di essere anche il mandante di due intimidazioni: una al giornalista sportivo Giuseppe Milicchio e l’altra all’imprenditore Settimio Lorè per indurlo a cedere la sua parte di quote societarie.

Quel teorema si rivelerà completamente infondato, tant’è che tutte le persone coinvolte, finanche gli ‘ndranghetisti, saranno assolti perché «Il fatto non sussiste». Quei reati, dunque, per i giudici non erano mai stati consumati. Per dimostrare il contrario, l’accusa si era avvalsa di svariati collaboratori di giustizia. Il loro intervento, però, si rivelerà un autogol. Il Tribunale, infatti, giudica «inutili» i racconti dei pentiti Francesco Amodio e Antonio Di Dieco, mentre le deposizioni di Oreste De Napoli e Franco Garofalo, più che incastrare Pagliuso, giocano a favore della sua innocenza.

De Napoli, infatti, ammette che la società “Cosenza calcio” era vittima di continue richieste estorsive e altrettanto fa Garofalo, ex braccio del boss Franco Perna, che arrestato nel 1996, riferirà ben poco sui fatti trattati nel processo (che risalivano al periodo compreso tra il 1999 e il 2001). In aula, però, riconosce come la “Grandi impianti” di Paolo Fabiano Pagliuso fosse sottoposta a richieste estorsive. Il presidente del Cosenza, dunque, era vittima e non carnefice. Non spalleggiava la malavita ma ne era taglieggiato. I giudici lo scriveranno a chiare lettere nelle motivazioni della sentenza.

Il processo si concentra in poche udienze fiume e a ottobre del 2006 arriva il verdetto che scagiona tutti e tredici gli imputati. Un anno e mezzo più tardi, a Catanzaro va in scena il secondo round giudiziario destinato a mettere una pietra tombale sull’inchiesta. Non a caso, in quella sede la Procura generale si limiterà a proporre una sola modifica all’accusa di truffa ai danni della Figc, chiedendo la prescrizione del reato, ma per il resto si allinea alle difese sulla richiesta di una seconda assoluzione collettiva.