giovedì,Marzo 28 2024

Il calcio sull’isola di Pasqua

Quando ho cominciato a fare questo lavoro, i miei capi mi ammonirono subito su uno dei principali difetti: «Smettila di iniziare sempre i pezzi con citazioni da libri e canzoni», dicevano. Ma le regole spesso sono fatte per essere infrante e io sono “caputuastu”. Per cui comincerò questo post partendo da “Collapse“, un libro meraviglioso

Il calcio sull’isola di Pasqua

Quando ho cominciato a fare questo lavoro, i miei capi mi ammonirono subito su uno dei principali difetti: «Smettila di iniziare sempre i pezzi con citazioni da libri e canzoni», dicevano. Ma le regole spesso sono fatte per essere infrante e io sono “caputuastu”.

Per cui comincerò questo post partendo da “Collapse“, un libro meraviglioso di Jared Diamond sulle civiltà scomparse. Il primo capitolo racconta la storia degli abitanti dell’isola di Pasqua, argomento che meriterebbe a parte dotte riflessioni, che io non sono minimamente in grado di fare. A me serve però per ricordare che quell’isola, ora poco più che brulla di vegetazione, un tempo ne era invece ricchissima. Tuttavia i suoi abitanti gareggiavano indefessamente tra loro nel costruire statue gigantesche e, a un certo punto furono costretti a scegliere: tagliare gli ultimi alberi per tirare su l’ultimo capolavoro o abbozzarla? Scelsero la prima. Nel giro di poco tempo, la fame si portò via una delle civiltà più evolute dell’intero Oceano Pacifico.

È una storia che, forse, non calza a pennello con la situazione del calcio italiano nell’emergenza Coronavirus. O forse invece sì. Perché è da decenni che il mondo del pallone vive letteralmente al di sopra delle proprie possibilità. La famosa parodia de “L’allenatore nel pallone” con il presidentissimo che millanta di ingaggiare un quarto di Zico e due terzo di Edinho è diventata realtà, tra prestiti con diritti di riscatto e comproprietà. I diritti televisivi hanno fatto il resto. O, forse, lo hanno cominciato.
È un processo iniziato quando scrivevo sulle pagine di “Tam Tam e Segnali di fumo“, e avevo 17 anni. Due decenni dopo la pandemia Covid 19 ha messo a nudo il re e tutto il suo reame – perché non è solo il calcio, ma tutto il cucuzzaro (sanità, economia, politica, industria, trasporti) ad aver firmato cambiali e ipoteche senza interrogarsi sul valore reale di ciò che aveva in mano.

Ed è questo a rendere l’intero dibattito sulla ripartenza o meno dei campionati stucchevole e insensato. Al punto che le parole più ragionevoli arrivano imprevedibilmente dal presidente Guarascio: «Un campionato che inizia ma non termina andrebbe come minimo annullato». Invece la Lega calcio si ritrova nelle stesse condizioni degli abitanti dell’isola di Pasqua: conservare l’ultimo albero o costruire l’ultima statua?

Era chiaro da fine febbraio che l’interruzione dei campionati avrebbe comportato grossi problemi economici all’intero sistema. Prendete società come l’Empoli, che a gennaio aveva fatto un mercato sontuoso, o il Benevento già con un piede in serie A. C’era (e forse c’è) il tempo per valutare una soluzione che mettesse da parte i profitti e badasse, per una volta, alla ragionevolezza: lo sport, senza il suo pubblico, non esiste. Lo hanno dimostrato tutte le gare disputate a porte chiuse, dall’ostinata messa in scena di Juve-Inter fino a Chievo Verona-Cosenza. Voler riprendere i tornei senza spettatori è una prova di ostinazione pallonara senza eguali nella storia. E, in una situazione di emergenza, pensare di tornare a giocare a calcio è come chiedere all’orchestrina del Titanic di tornare a bordo a suonare mentre il vascello va a fondo. Provate a chiederlo ad Atalanta e Brescia di tornare in campo, tanto per capirci.

Invece no. L’ipotesi che leggo di una ripartenza legata a controlli sanitari permanenti sugli atleti è surreale: si dovrebbero garantire settimanalmente tamponi e test sierologici per migliaia di calciatori, quando c’è già enorme difficoltà nel garantire queste stesse prestazioni alla popolazione delle singole Regioni.

Temo che la pantomima andrà avanti ancora per un po’, nonostante tutti gli attori sappiano benissimo che sport e spettacoli (musica, teatro) non torneranno in scena ragionevolmente prima dell’autunno. Ma nessuno vuole restare col cerino acceso e tutti vogliono dimostrare di aver fatto di tutto per rimettere in scena lo show. Perché se le pay tv non hanno il campionato da raccontare rischiano un bagno di sangue (e dietro le pay tv ci sono migliaia di onesti lavoratori) e, se le pay tv non pagano i diritti televisivi, salta in aria tutto il sistema. Non a caso sport, come basket e volley, la cui sostenibilità non dipende da queste dinamiche, hanno chiuso il bandone della stagione sportiva con largo anticipo (e molta saggezza).
Temo che non se ne sia nemmeno accorto, ma il calcio (come molti altri settori della nostra vita) ha l’opportunità di ripartire da questa emergenza. È letteralmente davanti a quell’ultimo albero e a quell’ultima statua sull’isola di Pasqua, come centinaia di anni fa. Può continuare a credere che questa pandemia sia poco più di un’influenza, che stiamo tutti sbarellando (e qualche sceriffo improvvisato dai balconi sicuramente lo ha fatto) e sperare di restare a galla, ma sarà una pallida illusione. Oppure può sanificare il sistema e renderlo sostenibile e, di nuovo, davvero popolare, riducendo quella distanza che oggi c’è tra squadre e spettatori, calciatori e tifosi.

Mentre la preoccupazione del Paese è (e deve essere) quella di far ripartire le grandi aziende e le Pmi, gli uffici e i servizi in condizioni di sicurezza, per evitare la peggiore recessione della storia, che qualcuno possa davvero appassionarsi a quali contratti il Cosenza ha al 30 giugno e con quali potrà scendere in campo nel caso di una improbabile ripresa o ai benefici di un’eventuale salvezza a tavolino, è davvero la più surreale delle “belinate” (il genovese ha questa bellissima parola per definire queste cose, non sembra quasi nemmeno un insulto…) che sia stato mai costretto a sentire in tutta la mia vita. E, spero per voi, anche nella vostra.