giovedì,Marzo 28 2024

Il corto senz’anima di Gabriele Muccino sulla Calabria

I calabresi non hanno apprezzato il cortometraggio di Gabriele Muccino, costato oltre un milione e mezzo di euro. Un prodotto anacronistico.

Il corto senz’anima di Gabriele Muccino sulla Calabria

Il corto di Gabriele Muccino non è piaciuto alla stragrande maggioranza dei calabresi. Sei minuti e otto secondi di cortometraggio (esclusi i ringraziamenti per gli Enti, le forze dell’ordine e l’elenco delle persone che hanno lavorato alla produzione), raccontando una Calabria anacronistica e parziale, come i dialoghi degli attori “calabresi” che all’inizio hanno un accento siciliano. Gabriele Muccino ha voluto che Raoul Bova e Rocio Munoz facessero vedere la Calabria degli agrumi e del mare, dimenticandosi delle montagne, dei musei archeologici e delle bellezze presenti nelle città più grandi della nostra regione. Basti pensare a Crotone, Reggio Calabria, Catanzaro e Cosenza, solo per citarne alcune.

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Gabriele Muccino ha deciso che per la Calabria poteva andar bene una cosa scritta così, alla buona («Dove vuoi che ti porto?» è l’incipit), incastrata tra immagini filtrate con una lut che esaltasse gli aranci e i verdi in modo così accentuato da rendere il mare di Tropea più simile alle acque delle Terme Luigiane.

Se Muccino avesse fatto vedere la Sila, il Pollino e l’Aspromonte, avrebbe sicuramente reso un servizio “pubblico” diverso ai calabresi, privilegiando quegli aspetti naturalistici che non per forza di cose sono le clementine, i bergamotti o le arance. Certo, è anche questo. E lo sanno bene gli italiani, e gli stranieri, che nel nostro Paese o in giro per il mondo, hanno la possibilità di acquistare questi prodotti. 

Muccino, in realtà, avrebbe dovuto farci scoprire in primis a noi calabresi luoghi e usanze sconosciute. Ed invece, il prodotto finale somiglia a un sequel di “Manuale d’Amore” dal sapore agrumato. Un film già visto. Così i due protagonisti non fanno altro che camminare, sbucciare e dialogare come due attori di una recita scolastica. 

La sensazione è che Gabriele Muccino si sia impegnato poco nel realizzare un cortometraggio che doveva esaltare pure le buone maniere dei calabresi, come l’accoglienza e la solidarietà. Mangiare al ristorante all’aperto con persone anziane che giocano a carte non è una realtà calabrese. Qui gli anziani, gli adulti e i giovani si sfidano a tressette, briscola e scopa davanti ai bar, senza coppole ma con un birra fredda sul tavolo o appoggiata su una sedia. Succede così ovunque. E poi diciamola tutta: i turisti che arrivano da fuori sembrano i coloni civilizzati, quelli del posto, invece, maschere di Carnevale, vestiti con i pacchetti preconfezionati che si vendono in saldo per le feste in costume. 

Se Muccino avesse voluto parlare di accoglienza in salsa calabrese, avrebbe potuto far entrare Bova e Munoz a casa di parenti di lui, dove la nonna di turno avrebbe ammassato dua maccarruni, preparandoli cu sucu i carne. Perché Calabria significa anche famiglia e tradizione. Cioè, quello che manca nel video di Gabriele Muccino. La ciliegina sulla torta? Adelaide, Penelope e la soppressata col finocchietto. Beh, queste sono le uniche tre cose che i calabresi non conoscevano. 

Se questo video fosse costato 50mila euro, sarebbe stato brutto lo stesso, ma la cosa farebbe meno male. Con un milione e passa in meno nelle tasche, invece, “Calabria terra mia” (niente, neanche sul titolo è stato fatto un minimo sforzo), è una lama che trapassa il cranio, e provoca la stessa punta di dolore che si riconosce alle occasioni perdute, polverizzate.

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