lunedì,Gennaio 13 2025

Processo Bergamini, il pentito Garofalo: «Buttarono fango su Paese, ma la criminalità non c’entrava nulla»

Lo storico collaboratore di giustizia, ex componente dell'allora cosca "Perna-Pranno" di Cosenza, racconta cosa successe dopo la morte dell'ex centrocampista rossoblù

Processo Bergamini, il pentito Garofalo: «Buttarono fango su Paese, ma la criminalità non c’entrava nulla»

Dopo oltre dieci anni di “assenza forzata”, il pentito di ‘ndrangheta, Francesco Garofalo, ex esponente di spicco della cosca “Perna-Pranno“, ha varcato di nuovo l’ingresso del Palazzo di Giustizia di Cosenza, per testimoniare nel processo Bergamini, dove la Corte d’Assise valuterà la responsabilità penale o l’innocenza di Isabella Internò, imputata per omicidio volontario.

Come inizia la collaborazione di Francesco Garofalo, ex braccio destro di Franco Perna

Francesco Garofalo, nel corso della carriera criminale, ha commesso vari delitti di stampo mafioso. A Cosenza, infatti, si respirava un clima pesante, dove il sangue scorreva a fiumi. Poi subentrò la cosiddetta “pax mafiosa”, dove ognuno coltivava il suo “orticello”: estorsioni, usura e altri reati. E chi sgarrava veniva punito con la morte. Il pentito, a tal proposito, ha ripercorso le ultime fasi prima di collaborare con la giustizia.

«La mia collaborazione è stata un percorso sofferto. Sapevo che accusando i miei amici li avrei condannati al “fine pena mai”, ma dopo l’uccisione di mio cognato e mia suocera, non potevo fare altrimenti. Nella ‘ndrangheta vige la regola che le cose vanno sistemate, avrei potuto sopprimere una donna, ma non l’ho fatto. Così sono andato alla ricerca dei responsabili e li ho trovati: Giovanni Leanza, Lucio Bassano e Roberto Pagano (poi diventato collaboratore di giustizia)». Si tratta comunque di una vicenda controversa, quella del duplice delitto, sulla quale ancora non si è fatto luce.

«Ho avuto più appoggio da Franco Pino, che all’epoca era mio rivale, che dai miei amici. Franco Pino venne a casa mia e poi in un altro luogo vennero uccisi Bassano e Leanza». Con i Pagano andò diversamente: «Dissi a Francesco Pagano di parlare con il fratello e risolvere la questione, ma non fu così. Allora fui costretto ad eliminare Francesco Pagano». E poi ha spiegato: «Non mi sono pentito perché non volevo fare il carcere, anzi. L’ho fatto con orgoglio». Il collaboratore di giustizia ha ricordato anche le vicissitudini sanguinarie con i fratelli Bartolomeo («scappati a Palermo dai Graviano» ha detto Garofalo) e su domanda del pm Luca Primicerio, dopo un lunga premessa sugli eventi mafiosi avvenuti a Cosenza, si è entrati nel vivo del processo Bergamini.

Processo Bergamini, i rapporti tra Garofalo e Antonio Paese

Il pentito Francesco Garofalo, sollecitato su Antonio Paese, ha riferito che si trattava di «un noto esponente della criminalità, vicino a Mariano Muglia. Con Antonio Paese ho avuto sempre un dialogo corretto, pulito, gli ho battezzato anche i figli. Poi tra l’84 e l’85 mi diede anche un appartamento per riservarmi. Per lui nutrivo un grande rispetto fino alla sua morte. Paese – ha aggiunto Garofalo – aveva grandi capacità criminale. Ma non era ben visto. Lui faceva poi usura».

«Antonio Paese e Santino Fiorentino erano cognati. Santino, titolare di Giocasport Franca, aveva sposato una sorella di Antonio e sapevamo che aveva venduto la Maserati a Donato Bergamini». Poi un inciso: «Tutti i presidenti del Cosenza calcio sono stati messi sotto estorsione dal sottoscritto: mi davano parte degli incassi o un tot di abbonamenti. Non sfuggiva nessuno a questa regola». Ed ecco l’argomento Bergamini: «Lo conoscevo perché veniva in via Panebianco. Il lunedì quando riposavano, i giocatori erano soliti passare dal circolo, dove giocavamo a carte. Ad esempio Alberto Urban amava il tresette a perdere, mentre Donato era comunque un ragazzo riservato, parlava spesso con Santino Fiorentino», recentemente scomparso.

Processo Bergamini, quando Garofalo difese Paese

Il giorno della morte di Denis Bergamini, avvenuta il 19 novembre del 1989, la criminalità organizzata cosentina si sarebbe guardata intorno per capire cosa fosse accaduto a Roseto Capo Spulico. «Personalmente non ho mai creduto alla teoria del suicidio, perché Denis era un ragazzo solare e pieno di vita, aveva da poco comprato quella macchina» ha detto Garofalo. «Con il tempo venne fuori però una diatriba tra Antonio Paese e Mario Pranno, perché quest’ultimo non vedeva di buon occhio Paese. Allora cercarono di buttare fango su Paese, nel tentativo di distruggerlo, visto che non era la prima volta».

«Fui costretto allora ad interessarmi della vicenda, affrontando a viso aperto Antonio Paese che se mi avesse mentito avrebbe fatto una brutta fine. Le regole nostre erano chiare. E le dico signor presidente – rivolgendosi al giudice Paola Lucente – che i nostri interrogatori non venivano fatti con una lente davanti, ma si effettuavano davanti a una fossa, tanto per capirci». E Paese «mi disse che non c’entrava assolutamente nulla con la morte di Denis. Gli credetti e mandai a dire a Mario Pranno, attraverso il fratello Pasquale, che era più ragionevole, che Paese non era coinvolto. Anzi, tutta la criminalità organizzata cosentina era estranea al suo decesso. Se qualcuno viene qui e parla di scommesse o droga, mente».

«Se Mario Pranno voleva davvero sapere come morì Bergamini poteva andare a chiederlo direttamente a Isabella Internò, io se avessi fatto questo, l’avrei certamente sequestrata e sarebbe stata costretta a dire la verità, altrimenti faceva una brutta fine».

Garofalo, inoltre, venne a sapere che «Michele Padovano, dopo la morte, andò a casa di Isabella Internò, ma riferì ad alcune persone, che il clima non era affatto triste, sembrava che a nessuno dispiacesse della prematura scomparsa di Bergamini». E ancora: «Io penso che hanno fatto bene a riaprire le indagini, Facciolla ha fatto bene, perché le prove che c’erano all’epoca, sono le stesse di oggi» afferma Garofalo, esprimendo un opinione molto personale sul processo. E non sono mancati i riferimenti alla magistratura, “accusata” di trattare con gli avvocati, in quel periodo per “aggiustare” alcuni processi degli anni novanta.

Circostanze che il presidente Lucente ha interrotto nel momento in cui l’avvocato di parte civile Fabio Anselmo, ha chiesto al testimone se sapeva quali altri avvocati cosentini avessero intorbidito le acque, gettando ombre sui pentiti. Poi Garofalo riprende un episodio avvenuto oltre dieci anni fa quando «l’avvocato Tommaso Sorrentino, che ringrazio per avermi detto “occhio ora che te ne vai”, mi mise in guardia. Infatti di ritorno verso la località protetta, notammo con la scorta» che ha annuito al suo racconto, «quattro macchine posizionate in una piazzola di sosta. Non volevano uccidermi lungo tragitto ma scoprire dove abitavo con la mia famiglia». Garofalo ha tenuto a precisare inoltre di non aver mai commesso reati durante la collaborazione, ma di essere stato arrestato per fatti di usura relativi al 1991. «Chiesi al magistrato se potevo recuperare i soldi e mi trovai in manette» ha dichiarato Garofalo.

Processo Bergamini, il controesame di Garofalo

Nel controesame, gli avvocati Pasquale Marzocchi e Angelo Pugliese, hanno rivolto alcune domande circa la capacità della criminalità organizzata di venire a conoscenza di fatti di sangue. «Un omicidio del genere se fosse stato commesso dalla criminalità organizzata lo avremmo saputo, ma se fosse maturato in ambito privato, sarebbe stato compito nostro accertarsi di quanto maturato a Roseto Capo Spulico. Per fare una cosa del genere, fuori dal territorio di riferimento, serviva comunque un appoggio esterno». In tal senso, Garofalo ha citato l’omicidio di Mario Mirabile, braccio destro di Cirillo, ucciso nella Sibaritide con l’assenso dei clan cosentini. In sostanza, in riferimento al presunto coinvolgimento di Isabella Internò, la criminalità organizzata cosentina non venne mai a sapere se si trattò di un omicidio o meno.

Nella prossima seduta, toccherà ai medici. Saranno presenti sia i consulenti della super perizia che quelli chiamati in causa nella seconda indagine poi archiviata dal gip di Castrovillari, Anna Maria Grimaldi.

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