«Dove c’è un torrente, che ci passa l’acqua». Così, con parole semplici ma involontariamente poetiche, il pentito Pasquale Percacciante descriveva la tomba di Antonio Benincasa alias “Vallanzasca”, esponente del clan dei nomadi cosentini di cui non si hanno più notizie da quasi vent’anni, sicura vittima di un caso di lupara bianca. Un delitto rimasto fin qui impunito poiché, Perciaccante a parte, le indagini sono andate a sbattere per anni contro un muro di silenzi e omertà che sembrava impenetrabile. Sembrava, perché dal 2016, Franco Bruzzese e Celestino Abbruzzese detto “Micetto” hanno aperto una crepa diventata poi breccia a seguito della collaborazione del boss rossanese Nicola Acri. Il risultato è che nel 2018, la Dda di Catanzaro ha riaperto il caso, iscrivendo nel registro degli indagati sei persone fra presunti mandanti ed esecutori materiali dell’omicidio. Dell’esistenza e dell’attualità di questa inchiesta ve n’è traccia negli atti dell’ultima operazione antimafia contro la ’ndrangheta cosentina. Basterà per far luce sulla fin qui misteriosa sparizione di Vallanzasca datata 19 maggio del 2003?

Un delitto “preventivo”

Avrebbero dovuto ucciderlo anche prima, ma a salvargli la vita erano state le forze dell’ordine con un arresto per lui provvidenziale. Per Benincasa, però, l’appuntamento con il destino era solo rimandato: quel giorno di maggio i suoi sicari lo vanno a prendere all’uscita dal carcere e da allora di lui non si hanno più notizie. La sua fine è intimamente collegata con il pentimento di Franco Bevilacqua alias “Franco i Mafarda”, leader degli zingari cosentini che nel 2001 salta il fosso e inizia a collaborare con la giustizia. Benincasa è un suo uomo di fiducia, specializzato in rapine e fatti di sangue, ragion per cui il sospetto della prima ora è che con lui il gruppo criminale abbia deciso di giocare d’anticipo per prevenire pericolose emulazioni. Dopo la sua scomparsa, è lo stesso “Mafarda” a suggerire questa pista agli investigatori, aggiungendo un ulteriore buon motivo che i suoi ex accoliti avrebbero avuto per farlo fuori: «Si drogava, e questo l’aveva reso inaffidabile agli occhi degli altri».

L’avvento dei pentiti

Le sue dichiarazioni restano isolate fino al 2009, quando sulla vicenda si esprime anche Perciaccante, allora fresco di fuoriscita dal clan nomade, sponda cassanese. È lui a introdurre un nuovo possibile movente dell’omicidio Vallanzasca, inquadrandolo nel contesto della guerra di mafia tra il suo gruppo e la famiglia Forastefano in corso nei primi anni Duemila nella Sibaritide. Benincasa, a suo dire, faceva parte del commando che il 27 luglio del 1999 uccide Antonio Forastefano. «Aveva il compito di portare via in auto il killer dopo l’agguato, ma se ne andò in anticipo, lasciandolo a piedi». Quel killer era Nicola Acri, e di lì a poco sarà lui a pretendere la testa di quell’autista poco affidabile.

Le contraddizioni

Anche Bruzzese e “Micetto” individuano nella vendetta del boss di Rossano la causa della scomparsa del rapinatore, e sostengono di averlo appreso, in tempi diversi, direttamente da chi si occupò di sopprimerlo. Qui però cominciano le note dolenti. Secondo Bevilacqua, infatti, la verità è un’altra: Benincasa svolse a dovere il proprio compito di “staffetta” nell’agguato contro Forastefano, tant’è che una volta rientrato in città ebbe a lamentarsi del magro compenso – solo cinquecentomila lire – ricevuto per la prestazione. Un ulteriore enigma riguarda il luogo dell’esecuzione, che una parte dei pentiti indica «in una stalla di Spezzano Albanese o Cassano», e che altri localizzano invece in Sila, ipotesi quest’ultima ritenuta più credibile dalla Dda tanto da evidenziarla anche nel capo d’imputazione.

Aspettando il boss Acri

Tante certezze insomma, ma pure parecchia confusione. E a questo punto a sgombrare il campo da ogni dubbio potrebbe pensarci Nicola Acri. Le sue dichiarazioni sono ancora coperte da segreto istruttorio, ma solo da lui passa la possibilità di far luce una volta per tutte sulla vicenda. Riguardo a Benincasa, la sua cattiva fama lo ha perseguitato anche dopo la scomparsa, tant’è che prima che i Tribunali ne dichiarassero la morte presunta, ha continuato a incassare condanne per la sua vecchia attività da rapinatore. È proprio vero: Il male fatto dagli uomini sopravvive a loro, il bene viene seppellito con le loro ossa.