Il gruppo di spacciatori extracomunitari che imperversava a Cosenza nell’area dell’autostazione si riforniva da un nigeriano di stanza a Rosarno che, a sua volta, si procurava l’erba sul posto oppure recandosi a Roma. Quest’ultima eventualità, però, non era vista di buon occhio dai pusher africani naturalizzati cosentini. La marijuana che arrivava dalla Capitale, infatti, era del tipo “albanese”, ammoniacata e dunque meno buona oltre che nociva alla salute.

Non era semplice per gli indagati riuscire a entrare in possesso della merce. Ne acquistavano un chilo alla volta, ma molte delle loro spedizioni in quel di Rosarno, venivano interrotte sulla strada del ritorno da polizia e carabinieri, con blitz che si risolvevano nell’arresto dei corrieri e nel sequestro degli stupefacenti. Per gli spacciatori guidati da Obinna era un problema, dato che l’accordo capestro sottoscritto con i grossisti, imponeva loro il pagamento del carico anche in caso di imprevisti come questo.

I rapporti con i fornitori non erano affatto idilliaci. Uno degli indagati, infatti, ha raccontato agli inquirenti di aver assistito in diretta al pestaggio del suo capo, reo di non aver onorato un debito di 4700 euro. Per l’occasione, il suo connazionale era venuto apposta da Rosarno e, proprio all’autostazione, in pieno giorno e davanti a decine di testimoni, gliele aveva date di santa ragione. Episodi come questo a parte, fra i membri dell’associazione c’era «un forte sentimento di solidarietà» tant’è che se uno di loro finiva la droga da spacciare, poteva prenderla da un altro pusher dell’organizzazione senza pagare alcun sovrapprezzo.

Morbido era anche l’atteggiamento nei confronti di chi decideva di uscire dal giro. È il caso di uno degli indagati che, stremato dai ripetuti arresti e oberato dai debiti, matura questo tipo di scelta e ottiene il permesso di lasciare il gruppo, senza subire alcuna ritorsione. «A tutt’oggi – ha spiegato lui stesso ai magistrati – nessuno è ancora venuto a chiedermi i soldi che devo».