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Una parte dei soldi ricavati dalle estorsioni, serve per mantenere i detenuti in carcere. È una regola non scritta della malavita cosentina, un precetto che tutti sono obbligati a rispettare. E anche il resto dei capitali accumulati grazie all’esercizio del racket, sono ripartiti in base a una logica molto originale.
A svelare questo retroscena in buona parte inedito è stato di recente Roberto Porcaro che, nei mesi scorsi, ha tentato di accreditarsi come collaboratore di giustizia, salvo poi tornare sui propri passi e ritrattare tutte le sue precedenti confessioni. Fra queste figurano anche alcuni dati di contesto criminale che, seppur non utili in chiave processuale, aiutano a comprendere meglio le dinamiche segrete dei clan. Uno riguarda proprio le estorsioni, un settore disciplinato in modo molto più rigido rispetto ad esempio alla droga.
«Per il traffico di droga non c’era alcun problema», spiegava l’allora pentito ai magistrati a giugno del 2023. «Normalmente, quella è un’attività più libera sotto il profilo criminale-associativo, nel senso che ciascuno può acquistare stupefacenti da chi offre le migliori condizioni di mercato e gestire all’interno della propria associazione eventuali questioni come la ripartizione dei proventi e gli stipendi ai carcerati. Molto più problematica era invece l’imposizione di estorsioni su un territorio non di propria competenza in nome e per conto dell’associazione di Cosenza».
A riprova delle sue affermazioni, Porcaro associava anche un esempio scolastico riferito al gruppo Calabria di San Lucido che, a suo dire, consegna ai cosentini metà dei proventi delle estorsioni. «Questo accordo ha un senso logico legato anche alla storia del territorio: si pensi, infatti, che negli anni passati, Mario Gatto, affiliato storico di Cosenza, è stato arrestato e condannato nell’operazione “Terminator”, fra le altre cose per l’omicidio di Marcello Calvano, esponente dell’epoca della cosca di Sal Lucido. Conseguentemente, i proventi estorsivi riscossi a San Lucido dalla ‘ndrina locale, in parte restano sul territorio e in parte vanno a Cosenza per il sostentamento di detenuti cosentini in qualche modo legati a San Lucido».
Una sorta di tributo, insomma, una rendita ottenuta a fronte di un sacrificio versato sul campo. Una logica analoga, a suo dire, interessava anche la città di Paola. «Lì sono storicamente egemoni i Serpa, legati a Michele Bruni per il tramite di Nella Serpa. Hanno subito condanne, anche all’ergastolo, e quindi devono mantenere i loro detenuti». Chiunque sia il reggente di turno dell’organizzazione criminale, dunque, deve tener conto di questo equilibrio da rispettare. Un assetto che in alcuni casi ha rischiato di saltare a causa di ingerenze esterne e qualche fuga in avanti. Questa, però, è un’altra storia.
Le più recenti dichiarazioni di Roberto Porcaro sono stati allegati agli atti dell’inchiesta antimafia “Affari di famiglia”. Ai suoi verbali da dichiarante è associato un manoscritto a sua firma con cui smentisce sé stesso, affermando di essersi inventato ogni cosa. Morale della favola: quei documenti potrebbero tornare attuali in un eventuale processo in abbreviato, previa valutazione del giudice sull’attendibilità dei contenuti. Nel processo ordinario, invece, quei documenti non potranno essere utilizzati.