La lettura dei tempi e il contatto con la realtà sono le due àncore necessarie a ogni politico. Nella primavera del 1993, Bettino Craxi le aveva completamente perse. Quasi un anno prima, a Montecitorio, aveva chiamato in correità tutta la classe dirigente della Prima Repubblica. Non si era reso conto, in questo modo, di essersi messo in prima fila con un bersaglio nel petto.

Quando il Parlamento negò l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, la folla che si era riunita sotto l’hotel in cui alloggiava diede vita a una contestazione violentissima. Una vera e propria aggressione. In molti, col senno di poi, l’hanno definita “squadrista”. E forse lo fu davvero. Ma la “pancia” del Paese, in quel momento, era in quella piazza. Non tollerava più l’impunità dietro la quale un intero sistema continuava a proteggersi.

Mi ero ripromesso, all’inizio di questa stagione, di parlare solo di calcio. E avrei voluto continuare su questa linea. Per tante ragioni, compreso l’impegno che Alvini e i suoi ragazzi stanno profondendo in questo campionato. E che, proprio in un momento critico per i risultati, con tre sconfitte consecutive e sei punti in sette gare, meriterebbero ben altra protezione.

Mi rendo conto, invece, che si tratta di un’ingenuità. Ci sono situazioni in cui “parlare di calcio” si traduce purtroppo nel derubricare quello che, per me, resta un fenomeno sociale nel più classico dei “panem et circenses”. Il calcio non è solo quel che accade sul campo o negli spogliatoi; che, anzi, spesso, è conseguenza di tutto il resto della giostra. E io di questa giostra, dopo tredici anni, sono stufo. Quello che leggete sarà, stavolta senza ripensamenti, l’ultimo atto di questa rubrica.

Negli ultimi decenni il calcio è stato trasformato in uno “spettacolo” e il tifoso in un “cliente”. Ma il “tifoso” resta accanto alla sua squadra in qualsiasi momento, la incita, la sprona quando le cose vanno male. Il cliente, semplicemente, decide se spendere o no: quindi lo spettacolo per cui paga dev’essere all’altezza dei soldi che investe.

A Cosenza siamo arrivati al cortocircuito di un pessimo spettacolo venduto a clienti a cui si chiede di essere tifosi a prescindere. Uno spettacolo al ribasso, senza appartenenza. Con lo schiaffo finale dell’aumento del prezzo dei biglietti, poi ringambato in poche ore, nell’unica partita che per il tifoso cosentino non ha prezzo. L’effetto benefico è stato quello di rivelarsi definitivamente a tutti, senza fraintendimenti, anche per a pochi che avevano preferito guardare il dito anziché la luna. E, come si vede dalla prevendita, di afflosciare ogni genere d’entusiasmo attorno al derby.

Il pessimo spettacolo, va detto a scanso di equivoci, non sono Alvini e i suoi ragazzi, dai quali continuo a sentirmi rappresentato nonostante i loro errori. È invece la cattiva gestione, il monte dei debiti che sale (e, dietro a fornitori non pagati, le vite di lavoratori e famiglie), la chiarezza zero: la creazione di un ambiente mefitico, ricaduto nell’ultimo mese in modo improvviso (ma non imprevedibile) sulle spalle dei calciatori, con l’inevitabile crisi di risultati. E, ovviamente, in assenza di interlocuzioni e chiarezza societaria, la conseguente caccia alle streghe (e agli arabi).

Tutto crolla improvvisamente assieme, come in una slavina. Le dimissioni di Ursino, oltre a chiarire una volta e per sempre il motivo del suo arrivo in estate (fare da apripista a Vrenna), fanno temere che il baratro sia davvero molto vicino. Poco importa se da qui a gennaio ci sarà un passaggio societario. E in quali mani.

La lettura dei tempi e il contatto con la realtà sono sempre mancati a questa dirigenza. E, in assenza di entrambe, tutti i suoi calcoli sono sempre risultati sbagliati. Minamò lo ha raccontato ripetutamente, tra ironia e rabbia, nell’inutile speranza che questo potesse suggerire un cambiamento, che ci si rendesse conto dell’imperdonabile spreco di una gestione pulciara in una provincia che mangerebbe pane e calcio. Spesso i conti sono tornati per convergenze astrali – enormi assist della buona sorte che ci hanno fatto sorridere e (purtroppo) hanno pure aiutato a nascondere tonnellate di polvere sotto il tappeto. Stavolta, però, i conti non torneranno.

Spero di sbagliarmi, ma quel che resta della stagione sarà un enorme hotel Raphael sportivo. Senza lanci di monetine, che non auspico, ma con tutte le conseguenze di una frattura annunciata e definitiva, con un prima e un dopo. Siccome sanno quello che fanno, non li perdono, non li perdonerò. Buon anno, ragazzi.