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Francesco Patitucci è «il capo dei capi» della criminalità di Cosenza, l’uomo al vertice «della grande rete d’interazione tra sottogruppi ‘ndranghetistici». I suoi periodi di detenzione non ne depotenziano la leadership, perché tanto lui «comanda dentro e fuori dal carcere». È uno dei passaggi più significativi della sentenza che lo scorso 19 dicembre ha sancito la condanna di 82 persone coinvolte nella maxioperazione “Reset”. Sei mesi dopo ne sono state rese note le motivazioni.
Alla sbarra c’erano gli imputati che hanno scelto di essere giudicati in abbreviato e fra questi figurano un po’ tutti i personaggi chiave dell’inchiesta. In testa, ovviamente, c’è lui: Patitucci. Venti delle oltre novecento pagine della sentenza sono dedicate a tratteggiarne la figura di boss per come emerge dagli atti d’indagine e dalle dichiarazioni dei pentiti. In particolare, decisive sono state le decine di conversazioni intercettate nel suo appartamento di via Fratelli Cervi dove il padrone di casa riceveva i maggiorenti dell’organizzazione.
Grazie a una microspia infilata di soppiatto in un elettrodomestico, gli investigatori sono riusciti a catturare i suoi colloqui con Antonio Illuminato, Michele Di Puppo, Mario Piromallo e con tanti altri personaggi gravitanti nel sottobosco del crimine locale. Ne è venuta fuori una vera e propria enciclopedia del malaffare, con dialoghi dal contenuto esplicito e riferiti, talvolta, a veri e propri summit mafiosi svolti in quello che il giudice arriva a definire, in termini evocativi, come «il salotto della ‘ndrangheta cosentina».
Ed è sempre lì, nel chiuso di quell’abitazione, che gli inquirenti ritengono di aver tratto le prove decisive per dimostrare la tesi principe dell’inchiesta, e cioè che tutte le batterie criminali della città, sia italiane che di etnia rom, con l’aggiunta del gruppo Presta dalla Valle dell’Esaro, fossero riunite in una gestione unitaria degli affari illeciti.
È la cosiddetta confederazione teorizzata dalla Dda di Catanzaro e di cui, invece, molti degli imputati eccellenti hanno tentato di confutare l’esistenza. A turno, infatti, Patitucci, Piromallo, Di Puppo e Porcaro tra gli altri, pur ammettendo di aver commesso reati, hanno negato con decisione di essere legati da un patto federativo. Almeno per il momento, però, hanno prevalso le dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia e le “solite” intercettazioni raccolte in via Fratelli Cervi.